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Non meno grave della casa di campagna, nè meno triste, era la casa di città; anzi era più cupa, e molto più brutta per certe pretese architettoniche e certe eleganze ridicole. La parte anteriore posava sopra un sottopassaggio, o portico ad archi tondi, sostenuto da grossi pilastri quadrangolari.

Di sotto al portico era la porta massiccia, sempre chiusa. Si tirava il campanello, si aspettava un poco e si entrava in un vestibolo oscuro, dov’era una lunga fila di pile per l’olio, in macigno giallo, con pesanti coperchi di legno nero a spranghe di ferro. In mezzo allo spazio non grande di quella entrata si drizzava la scala tutta in macigno, ampia e non priva di una certa solennità: quattro pilastri dello stesso macigno giallastro, di forma squadrata e lavorati in rustico, la sostenevano dal erreno all’ultimo piano; e un lucernario la rischiarava dall’alto, con poco effetto, poichè le prime branche rimanevano quasi buie nell’ombra livida dei grossi pilastri. Sui pianerottoli, in cucina, nel tinello, i pavimenti erano dello stesso macigno, quindi freddi, umidi, tristi. Ma nelle camere e nelle sale si notavano certe velleità di lusso e di vita comoda, intesi in un senso più moderno: p. es. pavimento di legno — in alcune sale tirato a lucido — soffitti dipinti con cura a finti stucchi, e abbondanza di dorature; grandi stufe bianche a porcellana (che raramente si accendevano); usci a doppie imposte, fornite di cristalli, ecc., ecc.

Insieme a tutto questo, mobili sciatti e incompleti, eccetto quelli di un salottino — tutto nello stile del primo impero