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Quand’egli si metteva in mezzo a un crocchio, con la sua figura da ispirato, la testa circondata da un’aureola di capelli bianchi, gli occhi neri, ancora vivi, lampeggianti, la voce penetrante e sonora, pareva veramente un apostolo dei nuovi tempi.

La folla dei sordi, dei rimbambiti, dei burloni, degl’indifferenti, lo guardava con piacere. Essi lo ascoltavano con inconscia ammirazione, i più senza intendere o senza rendersi conto di quello ch’ei diceva.

Scandalezzate, palpitanti, per quella misteriosa e dolce paura che le donne più semplici hanno cara come una carezza d’amore, le vecchie se lo mangiavano con gli occhi e lo amavano.

Ma se la sottana di don Tinazza sventolava in lontano, l’oratore rivoluzionario perdeva immantinente tutto il suo uditorio. Chi non poteva allontanarsi abbastanza presto, fingeva di dormire.

Nell’autunno Alessandro cadde malato, e la moglie gli si mise al fianco da una parte, «Gerolamo» dall’altra.

Addio gaie recite sotto agli alberi verdi! Addio buone chiacchierate al sole!

Già coi primi freddi di ottobre molti dei più vecchi se ne erano andati. Nuovi ospiti arrivavano, nuovi balestrati dall’esistenza, in cerca di un ultimo rifugio.

«Gerolamo» non si allontanava mai dal letto dell’amico infermo e l’infermeria era piena di malati spediti, moribondi.

Tossivano, gemevano, rantolavano, infine partivano ad uno ad uno.