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genere». Venezia, dove le idee nuove avevano già numerosi partitanti e dove si preparavano grandi avvenimenti, doveva offrirgli sufficiente distrazione: la politica avrebbe facilmente ucciso l’amore. Tale era almeno la sua opinione.

All’ultimo momento, quando andò a salutare la contessa e Bianca de Clarance, poco mancò che il suo grande progetto naufragasse. Anche la dama sembrò commossa, anzi un po’ irritata. Chissà, forse il suo amor proprio di bella donna fu punto da quella inaspettata defezione. Egli partiva — dunque non l’amava? O quand’anche l’amasse, era capace di soffocare quell’amore! Ella non lo amava, o se pure lo amava, come credeva Elena Alvisi, era certamente risoluta a non abbandonarsi mai a quell’amore: avrebbe dovuto dunque essere contenta che egli partisse. Invece no. Soffriva nel cuore e nell’amor proprio.

È dolce imperare, ancorchè l’impero non possa darci la felicità. Un re che ha conquistato un paese, anche se gli dà più fastidi che vantaggi, non si rassegna facilmente a perderlo: tanto meno si rassegna una donna alla perdita di un forte cuore d’uomo che ella ha creduto suo....

Un solo pensiero dominò in quel momento il cervello di Bianca: Ettore la fuggiva; Ettore non l’amava o non voleva amarla e la volontà era in lui più forte dell’amore. La voce e le parole della dama rivelarono il dispetto.