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Def. 7. Per fine del nostro agire intendo il desiderio (appetitus).

Anche questo punto è stato chiarito nella introduzione.

Def. 8. Per virtù e potenza intendo la stessa cosa: cioè (per la prop. 7 della parte III) la virtù, riferita all’uomo, è la stessa essenza o natura dell’uomo, in quanto ha il potere di agire in modo che le operazioni sue possano venir intese per le sole leggi della sua natura.

La virtù, l’ideale, è per l’uomo, come essere empirico, la realtà pura e perfetta della sua essenza, la natura sua intelligibile; questo fine rappresenta nel tempo stesso il massimo della potenza dell’essere ossia quello stato nel quale esso esplica liberamente la sua attività, nel seno di Dio, secondo le leggi della sua natura, senza essere passivo in alcun punto, senza essere contrariato o sopraffatto da azioni estranee: ciò che avviene in quanto è unito perfettamente con tutte le cose in Dio. I gradi diversi di potenza o di perfezione nell’uomo, come essere empirico, sono i gradi di approssimazione del suo essere illusorio ed empirico a questa essenza perfetta. La potenza in senso materiale non è che un primo grado di questa potenza che è una cosa sola con la virtù.


2) Assioma. Non vi è nella natura delle cose alcuna cosa singola, di cui non ve ne sia altra più potente e più forte. Qualunque cosa data ne ha sempre sopra di sè altre più potenti, dalle quali può essere distrutta.

La realtà empirica è infinita nel senso che nessun limite dato in essa è possibile. Noi non possiamo pensare in essa cosa alcuna, di cui non possiamo pensare altro maggiore: perciò nulla di ciò che empiricamente esiste può sperare di raggiungere uno stato di stabilità perfetta: tutto è inesorabilmente travolto nella distruzione dalle forze sterminate della natura.