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sistere nell’essere proprio perfetto. Quest’attività non può negarsi, nè distruggersi da sè: nè nel mondo dei modi eterni vi può essere opposizione tra le essenze: ivi tutto è attività pura. — Per contro i modi in quanto finiti, in quanto cioè hanno un’esistenza limitata nel tempo, sono nell’essenza loro un vero tendere, un conatus; in quanto se da una parte anch’essi esprimono nell’attività loro un’affermazione dell’essere proprio, un’aspirazione a persistere nell’esistenza loro attuale secondo il tempo, dall’altra tendono a realizzare l’essere proprio nella sua purezza, aspirano verso la perfezione. Spinoza comprende ambo queste tendenze con l’espressione generica «perseverare nell’essere suo»: perchè in fondo anche l’aspirare verso la perfezione superiore è anch’esso, nel modo finito, un affermare l’essenza sua più profonda contro le limitazioni della sua esistenza nel tempo. Ma mentre quella parte di noi, che è costituita da idee chiare e distinte, non ha, in vero e proprio senso, che da perseverare nel suo essere perfetto, quella parte di noi che è costituita da idee confuse (cioè è ancora nel regno del senso) deve affermare il suo essere cercando la perfezione: ed è in questo suo conatus, il quale può essere contrariato o favorito, che hanno origine le passioni.

Tutto questo vale tanto dall’aspetto fisico dei modi quanto dall’aspetto spirituale, ossia dalla mente, con parallelismo perfetto: ciò che nega il nostro essere corporeo nel suo conatus è anche una negazione della nostra mente; ciò che favorisce od impedisce la nostra potenza corporea favorisce od impedisce anche la nostra potenza spirituale. Anzi Spinoza sembra qualche volta dare una specie di primato all’attività corporea in modo che la mente sembra non essere che un riflesso del conatus corporeo, una ripercussione spirituale degli appetiti corporei. Nello scolio della prop. 9 sembra quasi preludere alla teoria somatica delle passioni: «da tutto questo è chiaro che noi non ci sforziamo, non vogliamo, non appetiamo, non desideriamo qualche cosa perchè lo giudichiamo buono, ma anzi che noi lo giudichiamo