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88 CAPO XXI.

in cui trattavasi de’ governi d’oltre cento cinquanta città1, contenesse importantissimi ragguagli e considerati giudizi, sì delle costituzioni e leggi, come di ogni altro instituto de’ nostri popoli maggiori, ed in particolare degli Etruschi, ne fanno fede i cenni che egli diede d’un loro singolare costume, per cui solean temperare e misurar col suono de’ flauti le fatiche e il gastigo dei servi2. Costituivano gli schiavi nella città una classe separata e distinta dai cittadini. Essi non erano persone, ma cose. Ineguaglianza di stato, tanto universale nell’antichità, quanto deplorabile, che risultava dalla sola legge o dal dritto propriamente detto. Tuttavia fino a che si mantenne abituale negli avi nostri semplice e laboriosa la vita, ella rendeva meno dura la servil condizione: i servi, per lo più italiani tolti in guerra, o non erano in gran numero, o gli schietti costumi, più che il rigor delle leggi, bastavano a cautelare della loro fedeltà: perciocchè convivendo, faticando, e cibandosi i servi stessi insieme co’ padroni, era d’uopo che questi avessero per esso loro indulgenza ed equità. Tal era in principio la famiglia, tipo della società: di che si conservava indelebile traccia nei Saturnali. Ma cangiatosi per altri tempi e modi di vivere il costume, massime nella opulenta Etruria, troviamo che quivi

  1. Il trattato, Περὶ Πολιτειῶν, d’Eraclide è un compendio, o piuttosto un estratto, dell’opera d’Aristotile perduta.
  2. Aristot. ap. Polluc. iv. 56.; et ap. Plutarch. de Cohibenda ira. T. ii. p. 460.