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LIBRO QUINTO — 1799. 271

figli; per ventura d’Italia straniero perchè nato Svizzero. Egli più che gli altri inaspriva i martorii delle catene, del digiuno, della sete, delle battiture; tornando in uso e a merito le costumanze orribili de’ tempi baronali o monastici. Seguiva per ferocità al Duecce il colonnello de Gambs preside alle prigioni di Capua, e pari ad esso Scipione Lamarra generale di esercito, non che altri parecchi, allora oscuri, e dei quali la istoria debbe scordare i nomi.

IV. Ma pure a sollievo de’ prigionieri, come a spavento del re e de’ suoi ministri, stavano le incertezze d’Italia; cioè squadre francesi ancora in Roma ed in Toscana; Genova guardata da presidio forte per numero di legioni, fortissimo del suo capo general Massena; il Piemonte corso da Lecourbe; Macdonald con oste numerosa presso ad unirsi al general Moreau; e in somma eserciti combattenti, e la fortuna, sebbene inchinasse ai troni, ancora sospesa, o, quanto ella suole, mutabile. Perciò a’ tribunali di stato furono date due liste di nomi: de condannabili a morte, e di quelli tra loro per i quali non sarebbe eseguita la sentenza prima del regio beneplacito; questi erano i capitolati. Ma per due soli, prevalendo l’odio alle prudenze dell’avvenire, la eccezione fu trasandata, e si videro pendere dalle forche il generale Massa autore delle capitolazioni, ed Eleonora Pimentel, donna egregia, poetessa tra i più belli ingegni d’Italia, libera di genio, autrice del Monitore Napoletano, ed oratrice facondissima nelle tribune de’ club e del popolo.

Avvisate le giunte de’ voleri della regina e del re, cominciarono l’iniquo uffizio; prima e sollecita quella detta di stato, la quale congregavasi nel monistero di Monte-Oliveto; e, sia per mostra d’infatigabile zelo, sia per più grande orrore o spavento, l’infame concilio giudicava nella notte. Stabilirono, per tener viva la tirannide, scrivere in ogni giovedì le sentenze, pubblicarle al dì appresso, eseguirle nel sabato; a’ soli delle capitolazioni condannati mutava il re la pena di morte in ergastolo perpetuo dentro la fossa di Santa Caterina, nell’isola della Favignana. Questa isola dei mari di Sicilia, Aegeusa de’ Latini, e fin di allora prigione infame per i decreti de’ tiranni di Roma, s’erge dal mare per grande altezza in forma di cono, del quale in cima sta fabbricato un castello. E dal castello per iscala tagliata nel sasso, lunga nello scendere quanto è alto il monte, si giunge ad una grotta da scarpello, incavata, che per giusto nome chiamano fossa. Ivi la luce è smorta, raggio di sole non vi arriva; e grave il freddo, l’umidità densa; vi albergano animali nocevoli; l’uomo, comunque sano e giovine, presto vi muore. Fu stanza di nove prigionieri, tra’ quali più noti il principe di Torella grave d’anni ed infermo, il marchese Corleto della casa de’ Riarii, l’avvocato Poerio, il cavaliere Abbamonti.

V. Comincio racconto più doloroso; avvegnachè dopo le batta-