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274 LIBRO QUINTO — 1799.

giurisprudenza, in altre scienze, caldo ma cauto seguace di libertà, schivo di offici pubblici, e solamente inteso per discorsi e virtuosi esempii ad istruire il popolo, Guidobaldi gli disse: «Breve discorso tra noi; di’ che facesti nella repubblica? — Nulla, rispose l’altro, mi governai con le leggi o con la necessità, legge suprema.» E poichè il primo replicava che i tribunali non gli accusati dovessero giudicare della colpa o della innocenza delle azioni, e mescolava nel discorso alle mal concette teoriche legali, ora le ingiurie, ora le proteste di amicizia antica, e sempre la giustizia, la fede, la bontà del monarca, il prigioniero, caldo di animo ed oratore spedito, perduta pazienza, gli disse: «Il re, non già noi, mosse guerra ai Francesi: il re ed il suo Mack furono cagioni alle disfatte; il re fuggì lasciando il regno povero e scompigliato; per lui venne conquistatore il nemico, e impose a’ popoli vinti le sue volontà, Noi le obbedimmo, come i padri nostri obbedirono alle volontà del re Carlo Borbone; che la obbedienza de’ vinti è legittima perchè necessaria. Ed ora voi, ministro di quel re, parlate a noi di leggi, di giustizia, di fede? Quali leggi? quelle emanate dopo le azioni! Quale giustizia? il processo secreto, la nessuna difesa, le sentenze arbitrarie! E qual fede? la mancata nelle capitolazioni dei castelli! Vergognate di profanare i nomi sacri della civiltà al servizio più infame della tirannide. Dite che i principi vogliono sangue, e che voi di sangue li saziate; non vi date il fastidio dei processi e delle condanne, ma leggete su le liste i nomi dei proscritti e uccideteli; vendetta più celere e più conforme alla dignità della tirannide. E infine, poichè amicizia mi protestate, io vi esorto ad abbandonare il presente uffizio di carnefice non di giudice, ed a riflettere che se giustizia universale, che pure circola su la terra, non punirà in vita i delitti vostri, voi, nome abborrito, svergognerete i figli, e sarà per i secoli a venire la memoria vostra maledetta.» L’impeto del discorso consegui che finisse; e, finito, fu l’oratore dato ai birri, che stringendo spietatamente le funi e i ceppi tante piaghe lasciarono sul corpo quanti erano i nodi; ed egli, tornato in carcere, narrando a noi que’ fatti, soggiunse (misero o veritiero indovino) che ripeterebbe tra poco quel racconto a’ compagni morti.

Mario Pagano solamente disse ch’egli credeva inutile ogni difesa; che per continua malvagità di uomini e tirannia di governo gli era odiosa la vita, che sperava pace dopo la morte.

Domenico Cirillo, dimandato della età, rispose sessant’anni; della condizione, medico sotto il principato, rappresentante del popolo nella repubblica. Del qual vanto sdegnato il giudice Speciale, dileggiandolo disse: «E che sei in mia presenza?... — In tua presenza, codardo, sono un eroe!» Fu condannato a morire. La sua fama e l’aver tante volte medicato il re, e i reali trattenevano l’iniquo