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334 LIBRO QUINTO — 1806.


La reggenza, inviati al principe Giuseppe il marchese Malaspina e il duca di Campochiaro ambasciatori ad informarlo dell’autorità venuta in lei dall’editto regio, e proporre armistizio di due mesi, udì per assolute risposte, cedesse le fortezze, aprisse le porte della città, o si aspettasse render conto di ogni stilla di sangue francese o napoletano, che fosse versata per guerra stolta ed inutile. Così che stringendo il tempo e i timori, stando l’esercito francese presso alle mura di Capua, gli ambasciatori medesimi concordarono, a solo patto di quiete pubblica e di rispetto alle persone ed alle proprietà, la resa delle fortezze e de’ castelli del regno, il libero ingresso nella città, l’obbedienza al conquistatore. Così cessato il timore della guerra esterna, crescevano per lo avvicinamento dei Francesi e per la voce plebea che quegli accordi venivano da tradimento, i pericoli interni della città; insurgevano i prigionieri a rompere i ceppi e le porte, si assembravano a gruppi nelle piazze più frequentate i lazzari ed i già noti nel sacco del 99. Così finiva il giorno 12 di febbrajo e per molti segni l’alba vegnente pareva dovesse illuminare lo spoglio e le stragi nella città. Ma in quella notte, in un congresso di partigiani francesi, uomo risoluto così parlò:

«La nostra vita o la nostra morte, la quiete della città o lo scompiglio stanno nelle nostre mani. La reggenza è una forma vana di governo, sprovvista di credito e di forze, i tribunali sono chiusi, la polizia flagellata dalla mala coscienza si nasconde, mancano re, leggi, magistrati, ordini, forza pubblica; la società è dunque sciolta, ogni cittadino debbe provvedere alla sua salvezza; chi dimani sarà primo in armi, sarà vincente. Io propongo star desti a ed armati, e prima che il giorno spunti correre alle case dei compagni, unirgli, e andando, crescere di numero e di possanza. La piazza Medina sarà nostro campo, e di là, spartiti a pattuglie, percorreremo la città per raccorre i buoni, sperperare i tristi, opprimere i contumaci. Se al primo sole cento di noi andremo uniti, sarà nostra la città e la vittoria; ma se precederanno venti o meno lazzari armati gridando sacco e guerra, noi soffriremo guerra, sacco, ed esterminio.» L’animoso disegno fu applaudito. Altri più rispettoso alle leggi, con bel dire aggiunse che di quei pericoli si parlasse alla reggenza, e si ottenesse per decreto l’armamente de’ buoni, offerendosi ambasciatore. Ed il primo: «Tu andrai ad aringare i reggenti, io ad avvisare i compagni, e non cercando dei successi tuoi, sarò dimani primo ed armato per la città.»

La reggenza impaurita dalle udite minacce della plebe, come dall’ardire dei partigiani francesi, aderì all’inchiesta, e fece decreto che, stampato nella notte, fu affisso, prescrivendo quiete a’ cittadini, e di essa difensori i gentiluomini di ogni rione, facoltati ad armarsi ed a percorrere come forza pubblica la città. E così nel