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82 LIBRO PRIMO — 1748-59.

ne’ feudi, le liti feudali erano giudicate da magistrati regii; il foro di corte, il foro della nobilità ebbero minore potenza. Tutte le perdite di due ceti divennero altrettanti acquisti della curia comune; e però che in essa, come ho detto innanzi, entrava facilmente la plebe, la composizione del terzo-stato fu di curiali. Gli offizii, l’autorità, i guadagni vennero in loro mani; il re pigliava dalla curia i consiglieri, i ministri; l’ingegno forense diventò arte politica; le opere del governo nelle vicissitudini di regno presero indole e sembianze curiali.

Sono i curiali timidi ne’ pericoli, vili nelle sventure, plaudenti ad ogni potere, fiduciosi delle astuzie del proprio ingegno, usati a difendere le opinioni più assurde, fortunati nelle discordie, emuli tra loro per mestiere, spesso contrarii, sempre amici. Il genere della costoro eloquenza è tra noi cagione d’altri disordini: le difese sono parlate, lo scritto raramente accompagna la parola; persuadere i giudici, convincerli o commuoverli, trarre alla sua parte gli ascoltatori, creare a suo pro la opinione del maggior numero, momentanea quanto basti a vincere, sono i pregi del discorso; finito il quale si obbliano le cose dette, e sol rimane il guadagno ed il vanto della vittoria, tanto maggiori quanto più ingiusti. Da ciò veniva che della esagerazione o della menzogna, fuggenti con la voce, non vergognavano gli avvocati; e che i razionamenti semplici e puri della giurisprudenza si mutavano in aringhe popolari e seduttrici, ed il foro in tribuna. Mali al certo per la giustizia e per i costumi, ma rovina e peste nelle politiche trattazioni e ne rivolgimenti civili, quando bisognerebbe ragione, verità, freno alla plebe, temperanza di parti; ed invece prevalgono la briga, il mendacio, la licenza, indi l’origine de’ mali pubblici.

Se le riforme di Carlo, più vaste, avessero inteso non solamente alla Chiesa ed a’ feudi, ma ben anche alle milizie, al commercio, alla divisione de’ possessi, così che fossero entrati nel terzo stato militari, commercianti e possidenti, le condizioni del regno sarebbero state diverse. Ma quelle riforme partivano dal Tanucci, spinto da due sole comunque generose passioni, contro la feudalità, contro il papismo. Gretto d’animo e curiale egli stesso, trascurava le milizie credendole nella pace inutile peso allo stato, e confidando la corona del suo signore alle parentele di Spagna e di Francia, ed alle nuove che andava rannodando con la casa d’Austria e co’ principi della Italia; ignorante di economia politica, di finanza, di amministrazione, avido di potere, e, come straniero, più amante del re che dello stato. La buona fama ch’egli ebbe gli derivò dalle resistenze a’ pontefici, dallo scuotere la feudalità, dall’onesto vivere, da’ piacevoli costumi, e sopra tutto dalla lunga pace del regno, benigna velatrice degli errori de’ governanti.