Pagina:Storia della letteratura italiana I.djvu/381

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quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto. Dante stesso era detto poeta da calzolai e da fornai. Non pareva impossibile continuare il latino, come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.

Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare avea messo salde radici, illustrato da tanta gloria, nè potea parer vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo, con una comune fisonomia. Grandissima l’ammirazione de’ classici; frequentissimi gli studii del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile, discussioni erudite, senza conclusione e serietà pratica; si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell’Albiera o gli occhi di Lorenzo, purus apollinei sideris nitor, come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e Leonardo Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com’era parlato a Roma, e Lorenzo de’ Medici preferiva il Petrarca a’ poeti latini, chiamava unico Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino, e di Cavalcanti, e di altri minori scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un ignorante, rerum omnium ignarum, e che scrivea così male in latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi