Boccaccio. La lirica è sacra di nome; e non ha quella elevazione dell’anima verso un mondo superiore, che senti in Dante o in Caterina, ci è la preghiera, non c’è il sentimento. L’azione è pedestre e borghese, di una prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata dall’immaginazione. È il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di dolore sono elegia, le cui mistiche gioie sono idillii, mancato è il senso del terribile e del sublime, mancata è l’indignazione e l’invettiva: se alcuna serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni, apparecchiata con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei di Dante, e non gli autori e non gli spettatori. Si andava alle rappresentazioni, come alle feste carnascialesche, per sollazzarsi. E si sollazzavano, come si conviene a gente colta e artistica, co’ piaceri dello spirito e dell’immaginazione. Il mistero era per essi un piacevole esercizio dell’immaginazione, una ricreazione dello spirito. Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale il dramma era così poco possibile come la tragedia e l’eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda. Se quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie, e non poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico, fu perchè mancò all’Italia un ingegno drammatico, come affermano alcuni, quasi l’ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici, e venuto espressamente dal cielo. O fu, come affermano altri, perchè il latino attirò a sè gli uomini colti e il mistero fu trascurato come cosa del popolo, quasi che autori de’ misteri non fossero gli uomini più colti di quel tempo, o il latino che non potè uccidere il volgare potesse uccidere l’ani-