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che ispirò la Belcolore e la Nencia; è il borghese che si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta serietà con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama in testimonio Turpino, o dove nelle cose più gravi fa boccacce e t’esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de’ suoi personaggi. La parodia è ancora comica, perchè dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il più sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma, come è Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderà in eterno, nota l’angiolo Gabriello, trasformato l’individuo in tipo. La rappresentazione è anch’essa conforme a questa parodia plebea. La plebe non analizza e non descrive; ma ha l’intuito sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla naturale e così in grosso, e non ci si ferma, e passa oltre. La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme le lance e la penna; l’autore mentre move la penna vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d’occhio. L’ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco; è un incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è un verso solo. Al che aiuta il dialetto maneggiato maestrevolmente, soprattutto per la proprietà de’ vocaboli. Tutto è plebeo: azioni, passioni e linguaggio. Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza, col supplizio di Gano e di Marsilio. E io voglio fare il boia, dice l’arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol farsi cristiano all’ultima ora, è quale potrebbe suonare in bocca di un becero.
Il romanzo è una commedia, che contro l’intenzione dell’autore si volge in tragedia. Ma la tragedia è da burla,