Pagina:Storia della letteratura italiana II.djvu/149

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ducato, figlio della natura, vivuto fuori del suo paese, e che parla tutte le lingue fra le quali esercita le sue speculazioni. Fugge il toscaneggiare, come una pedanteria; non cerca la grazia, cerca l’espressione e il rilievo. La parola è buona, quando gli renda la cosa atteggiata come è nel suo cervello, e non la cerca, gli viene innanzi cosa e parola, tanta è la sua facilità. Non sempre la parola è propria, e non sempre adatta, perchè spesso scarabocchia, e non scrive, abusando della sua facilità. Il suo motto è: Come viene, viene, e nascono grandi ineguaglianze. Di Cicerone e del Boccaccio non si dà fastidio, anzi fa proprio l’opposto, cercando non magnificenza e larghezza di forme, nelle quali si dondola un cervello indolente, ma la forma più rapida e più conveniente alla velocità delle sue percezioni. E neppure affetta brevità, come il Davanzati, cervello ozioso, tutto alle prese con le parole e gl’incisi, perchè la sua attenzione non è al di fuori, è tutta al di dentro. Abbandona i procedimenti meccanici, non cura le finezze e le lascivie della forma. Ha tanta forza e facilità di produzione, e tanta ricchezza di concetti e d’immagini, che tutto esce fuori con impeto e per la via più diritta. Non ci è intoppo, non ci è digressione o distrazione; pronto e deciso nello stile, come nella vita. Mai non fu così vero il detto, che lo stile è l’uomo. Come il suo io è il centro dell’universo, è il centro del suo stile. Il mondo che rappresenta non esiste per sè, ma per lui, e lo tratta e lo maneggia come cosa sua, con quel capriccio e con quella libertà che il Folengo tratta il mondo della sua immaginazione. Se non che nel Folengo si sviluppa l’umore, perchè il suo mondo è immaginario, e lo tratta senza alcuna serietà, solo per riderne; dove il mondo di Pietro è cosa reale, e ne ha una perfetta conoscenza, e lo tratta per sfruttarlo, per cavarne il suo utile. Perciò non rispetta il suo argomento, non si cala