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abbandona a movimenti concitati e violenti sia per offendere, sia per difendere, sé qualcuno non lo eccita o non lo muove.

Quelle agglomerazioni di gente che nei tempi di cui discorriamo chiamavansi popolo, costituivano un popolo artefatto e accaparrato, e forse compro in gran parte, come cel descrisse il d’Azeglio.1 Vi figuravano alcuni di apparente civile condizione, parte imberbi, parte barbuti (e con che barbe!), e giornalisti, e tipografi, e poeti, e impiegati di mala tempra, cui era grave il recarsi all’officio, e artisti senza lavoro, e sfaccendati, e la parte non migliore della scolaresca, e un po’ di melma sociale pur anco, che nelle grandi città mai non manca.

D’altra parte essendo in quel tempo organati per tutto in Italia e circoli e quartieri civici e officine giornalistiche, fra le cose palesi, ritrovi o consorterie politiche, fra le clandestine, egli è chiaro che il metter su una dimostrazione in qualunque senso si fosse, riusciva una cosa delle più facili e spedite.

Aggiungi, dicevasi, che nelle grandi città massimamente, ove se havvi maggior cultura, havvi pure sovrabbondanza di corruzione, era molto diffusa l’idea che gesuitismo e ipocrisia fosser sinomini, e bene spesso accadeva che nel proverbiar qualcuno o per poca sincerità o per infingimento, sentivasi dire che la faceva da gesuita. La stampa liberale poi venire già da molti anni bersagliando i Gesuiti acerbamente. Gl’Italiani e la gioventù massimamente leggere più biasimi che lodi; non esser quindi meraviglia se molti fosser divenuti a loro ostili o per lo meno tiepidi e indifferenti. Doversi pur tenere conto della impressione che facevano in ogni luogo i Prolegomeni del Gioberti, libro ch’essendo divenuto di moda, veniva letto avidamente e lodato anche da non pochi del clero, ed in ispecial modo da quella parte meu dotta e meno esemplare che non era

  1. Vedi Ai suoi elettori Massimo d’Azeglio. Torino, 1849, pag. 26.