Pagina:Storia della rivoluzione piemontese del 1821 (Santarosa).djvu/91

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mi cade di mano, nè mi basta il cuore a dipingere il mesto addio di Vittorio Emanuele ai suoi vecchi servitori: quei soldati addolorati per l’abbandono del loro capo, quel popolo oppresso dal presentimento dei suoi mali vicini, gli sguardi inquieti che gli amici della libertà volgevano al principe di Carignano. Vittorio Emanuele partì per Nizza accompagnato sino alle Alpi dal generale Gifflenga.

Il reggente, in luogo di promulgare (Vedi Doc. D.) senza frappor indugio la costituzione di Spagna, sembrò volesse attender ordini di Carlo Felice. Bisognava esser ciechi sullo stato delle cose per isperare che la rivoluzione, dopo aver abbattuto ostacoli maggiori, si arrestasse ad un tratto. Non ignorava il principe che i fautori di una costituzione si erano dichiarati tutti per quella di Spagna1; che tale costituzione, gradevole a tutta Italia, era quella in cui la maggior parte dei cittadini ravvisasse più salde guarentigie de’ comuni interessi, che infine se esistevano ancora partigiani di altre costituzioni, n’era sì scarso il numero da non trovare nè appoggio presso l’opinion pubblica, nè forza ad agire.

Appena a Vittorio Emanuele il giorno 11 marzo sarebbe rimasta la scelta della costituzione, ma lo sperarla il 13 era un ingannarsi a partito. Il popolo si attruppava nelle strade, sulle piazze; ogni ritardo, ogni esitazione faceva stupire. E fu allora che Ciravegna, colonnello della brigata Aosta, fece intendere

  1. Non solo lo sapeva, ma egli stesso avea più volte esternato opinione favorevole alla costituzione spagnuola, dicendola l’unica che meglio d’ogni altra convenisse al paese. «Il Piemonte, anzi aggiunse sovente, manca dei necessarii elementi per una camera di pari»