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VARIETÀ




SU LA PENA DEI DISSIPATORI


(Inferno, C. XIII, vv. 109-129)




Di una pena dantesca in diversi modi si può dire: e specialmente se si guardi al suo significato e alla sua funzione etica, o al valore estetico della sua figurazione. Nulla di questo però mi propongo con le seguenti ricerche.

Prendere invece la rappresentazione dantesca come un disegno già compiuto, trovare per che ispirazione, con che modello, a che fine l’abbia il poeta così, com’ella è, disegnata e colorita: ecco quanto vorrei fare. Certo, prima di imaginare la pena, il poeta bene avrà ragionato su la natura morale del peccato, sul luogo che nella sua etica partizione più gli si convenisse. L’opera del filosofo però è, o mi pare, ben distinta da quella dell’artista. Il che se meglio si ricordasse, alcuna difficoltà, credo, più pianamente si potrebbe sciogliere.

Ma bastino i preamboli. Dante ha rappresentato i dissipatori nel modo che tutti sanno: nudi, fuggenti per una selva paurosa (la selva dei suicidi); dietro, un rovinio di cagne nere bramose correnti. V’ha chi, alla vista almeno di Dante, scampa; v’ha chi, raggiunto dalla muta selvaggia, è fatto a brani.

Questo è quel che si vede. Dobbiamo contenerci all’apparenza, o cercar sotto, altro, che non ha detto Dante, ma sì inteso? Molteplici sensi e intendimenti riposti trovarono i vecchi commen-