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letta, giacché non ne hai mai mangiata una intiera in tua vita.

— Oh, oh, esclamò il dottore, questa argomentazione è falsa. Converrebbe indagare se un piacere debba essere misurato dalla sua entità, piuttosto che dalla sua durata.

— Dall’una e dall’altra, diss’io.

— Sta bene, disse il colonnello, ma più assai dalla durata. Farò uno sforzo di logica. Argomentiamo da un caso opposto. Supponiamo a mo’ d’esempio, che abbiate a ricevere un colpo di bastone; voi ne sentirete dolore per uno, va bene, ma ricevetene invece dieci, ricevetene venti… Che ve ne pare? Persisterete a credere che il dolore dei dieci, dei venti, sia uguale a quello dell’uno? Singolarmente sì, ma molti dolori riuniti costituiscono un dolore più grande. Così è dei piaceri. Addizioniamo i piaceri, e ne avremo uno più vivo e più durevole. Forse che se noi rimanessimo qui, seduti a questa tavola fino alla mezzanotte, e riuscissimo a riunire con una catena di piccoli piaceri intermedi questi due grandi poli del piacere che sono il pranzo e la cena, non avremmo sciolto con onore questa questione?

Questa proposta trovò un eco in tutti i commensali.

— Chi avremo a cena con noi? chiese il dottore.

— Un mondo di persone, tutte le onorevoli metà dei nostri colleghi.

— Compresa la baronessa, la moglie di...

— Suo marito.

— O dell’amico di suo marito!

— Bando alla maldicenza, disse il colonnello. In verità che se io credo di avere una virtù, la è questa, di non veder mai ciò che non dev’esser veduto e, vedendolo, di persuadere me stesso di non aver visto. Vi è un beneficio grandissimo che ogni uomo è in grado di