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230 amore nell'arte


Era un suono delicato e lamentevole, un arpeggiare sommesso di pianoforte, forse una di quelle celesti melodie di Schubert che non si odono mai senza piangere.

— Ascoltiamo, mi disse Lorenzo — e ci sedemmo sul limitare della porta — è Adalgisa che suona: essa non ha cantato più da tre giorni, certo la povera fanciulla è sofferente, e la sua malattia glielo avrà vietato.

— Chi è dessa? gli chiesi commosso dalle note melanconiche di quella musica.

— Una donna che mi ama, diss’egli, una creatura sventurata; oserei dire un angelo, se le triste passioni che si sviluppano colla materia non ne contaminassero la natura privilegiata e celeste. L’infelice, aggiunse Lorenzo, è travagliata da una malattia terribile, la cui azione è dolce, lenta, sicura, mortale senza nulla svelarle della morte, dall’etisia: questa infermità non è che uno svolgersi più rapido della vita, in cui tutte le nostre facoltà si moltiplicano e si consumano nella attività straordinaria della loro azione. L’anima dell’etico acquista facoltà di nuovi e grandiosi concepimenti; la sua sensibilità è squisita, la bellezza delle sue forme incantevole, l’espressione e la mollezza dei suoi profili ineffabile. Adalgisa aggiunge alla sua avvenenza naturale le fatali attrattive di questa infermità.

— E tu l’ami? gli chiesi.

Lorenzo stette un istante pensieroso, poi mi disse risoluto:

— Non l’amo; o almeno, aggiunse correggendosi, non l’amo di quell’amore che si concepisce quaggiù dagli uomini. Dopo che una fatale avidità di lanciarmi nell’avvenire mi ha fatto conoscere quali frutti maturassero sull’albero della vita e mi ha allettato a raccoglierli, la mia anima ha sentita la vanità di questi piaceri; essa