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210 la secchia rapita


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     Titta ricominciò: — Becco, poltrone,
t’insegnerò ben io; vien fora, vieni. —
Piú non rispose il conte a quel sermone,
ma destò anch’egli al fine i suoi veleni:
e scoccò la balestra, e d’un bolzone
il colse a punto al sommo de le reni
sí fieramente che lo stese in terra;
e saltò fuori a discoperta guerra,
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     gridando: — Per la gola te ne menti,
romaneschetto, furbacciotto, spia. —
Titta aveva offuscati i sentimenti,
e a gran fatica il suo parlar sentia.
Ma saltaron color ch’eran presenti
subito in mezzo, e ognun gli dipartia;
e condussero Titta al padiglione
dilombato e che giá quasi carpone.
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     Quivi dal Toscanella ei fu burlato,
che dovendo levare al ciel le mani
d’aver l’emulo suo vituperato,
fosse entrato in umor bizzarri e strani
di volerlo ancor morto; e stuzzicato
sí l’avesse con atti e detti insani,
che d’una rana imbelle e senza morso
l’avesse al fin mutato in tigre, in orso.
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     — Se tu disprezzi la vittoria, disse,
che puoi tu dir s’ella da te s’invola?
Chi va cercando e suscitando risse,
non sa che la fortuna è donna e vola. —
Tenea Titta le luci in terra fisse
mesto ed immoto, e non facea parola.
Ma tempo è ormai di richiamar gli accenti
ai fatti de gli eserciti possenti.