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236 parte terza

autore vi è stato che un fino gusto della natura abbia avuto al par di Terenzio. Così egli, il cui testimonio ho qui volentieri addotto, come di uomo che per sentimento dell’ab. Goujet (Biblioth. franc. t.3, p. 112) che da niuno, io spero, crederassi pregiudicato, meglio forse di ogni altro moderno ha trattato ciò che all’arte poetica appartiene. Si può ancora vedere ciò che di questi due poeti e del loro diverso carattere dice lo stesso ab. Goujet. (ib. t.4, p. 330 e 393).


Per quale ragione i Romani in questa parte non uguagliassero i Greci XXVI. Così fra’ Romani si venne perfezionando la latina lingua non meno che la poesia nel sesto secol di Roma, e sul principio del settimo fino alla terza guerra Cartaginese ch’ebbe cominciamento l’anno 604, e finì l’an 607. E certo le commedie di Plauto e di Terenzio ci fan conoscere qual felice progresso facessero i Romani ne’ teatrali componimenti. Convien però confessare che questi non uguagliaron giammai nelle commedie il valore de’ Greci. Noi, dice Gellio (l. 2, c. 23), leggiam le commedie de nostri poeti prese e tradotte da quelle de’ Greci, di Menandro cioè, di Posidio, di Apollodoro, di Alessi e di altri. Or quando noi le leggiamo, non ci dispiacciono esse già, che anzi ci sembrano con lepore e con eleganza composte. Ma se tu prendi a paragonarle cogli originali greci da cui furono tratte, e ogni cosa di seguito e diligentemente tra lor confronti, comincian le latine pur troppo a cadere di pregio e a svanire al paragone; così sono esse oscurate dalle commedie greche cui invano cercarono di emulare. Ma qual crederem noi che fosse la vera ragione