Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo II, Classici italiani, 1823, II.djvu/188

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perciò a verseggiare e a sperare. Qualche ricompensa data talvolta ad alcuno mantenne viva per alcun tempo una sì dolce fiducia. Ma finalmente la sperienza di molti anni convinse i Romani che la poesia non era più, come una volta, sicura strada agli onori e alle ricchezze; e la poesia perciò fu quasi del tutto abbandonata , come a suo luogo vedremo. XXXIII. Rimane or solo che veggiamo in quale stato si fosse in Roma a quest1 epoca la poesia teatrale. Anche allor quando la romana letteratura era giunta nel secolo precedente alla sua perfezione, il teatro romano ciò non ostante era restato sempre assai inferiore al greco; e ne abbiamo a suo luogo esaminate le cagioni. Quindi molto meno era a sperarsi che esso si perfezionasse a questi tempi, in cui ogni altro genere di poesia andava decadendo miseramente. Se i compagni di Virgilio e di Orazio non eran giunti a comporre tragedie e commedie eccellenti, come poteva ciò aspettarsi dai compagni di Lucano e di Stazio? Le circostanze stesse de’ tempi non poco dovettero contribuire all’infelice stato del teatro romano. Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano, imperadori sospettosi al par che crudeli, aveano in conto di capitale delitto qualunque parola si fosse dagli attori proferita che sembrasse occultamente ferirli; e il poeta poteva a ragion temerne la morte, come dalle cose nel primo Capo riferite si può raccogliere. Qual maraviglia dunque se i poeti fatti schiavi, per così dir, dal timore, e scrivendo con animo sollecito e pauroso, rimanessero sempre in quella