Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/528

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TERZO 5oy cosa a vedere come dalle stesse sue parole citate da’ PP. Quetif ed Echard (Script. (Ord. Praed t. 1, p. 462), e da monsignor Gradenigo , i primi raccolgono ch’ei non seppe di greco , il secondo eli’ egli ne seppe. Le parole son queste: Hoc difficile est scire, et maxime mihi non bene scienti linguam Graecam. S’egli era uomo veramente modesto, deesi credere ch’egli scemasse ciò che tornava in sua lode, e che perciò fosse sufficientemente istruito in questa lingua. Ma se egli era uno di quelli che non soffrono con dispiacere di’ esser creduti più dotti ancor che non sono, si potrebbe temere ch’egli non solo non la sapesse bene, ma la ignorasse del tutto. Monsignor Gradenigo, tra gl’Italiani che sepper di greco in questo secolo, nomina ancora il celebre giureconsulto Accorso (p. 96); e io credo bensì che non abbia alcun fondamento ciò che volgarmente raccontasi, cioè che egli avvenendosi in qualche parola greca solesse dire: graecum est; non legitur; ma ch’ei la intendesse , non riguardo al tempo in cui questo autore vivea, quando cioè progressi alquanto maggiori si eran fatti nel corso di oltre ad un secolo nell’amena letteratura, e sembrava perciò imperfetto ciò che prima non rimiravasi per poro come divino. Ch’ei poi sapesse di greco, comprovasi chiaramente dall’osservare che assai maggior numero di voci e di derivazioni greche trovasi nel Lessico di Uguccione che in quello di l’apia. Di queste riflessioni a difesa e ad onor di Uguccione io son debitore al eh. sig. Ranieri Tempesti autore di un elegante ed erudito Discorso sulla Storia letteraria di Pisa, il quale ha potuto, ciò che a me non era stato permesso, confrontare insieme i Lessici di questi due scrittori.