Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo VII, parte 3, Classici italiani, 1824, XII.djvu/759

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TERZO I sicché il veleno non si scoprisse. Io credo dunque che il Bibbiena non fosse reo che di una mal saggia ambizione di quel supremo grado di onore, e che il veleno, di cui egli morì, altro non fosse che lo sdegno di quel pontefice, ch ei si avvide di avere incorso. Più altre particolari circostanze intorno alla vita e alla morte del Cardinal Bibbiena si posson vedere presso il soprallodato canonico Bandini, il quale ci dà ancora il catalogo delle Lettere, delle Rime, e di qualche altro opuscolo da lui lasciatoci. Io dirò solo della Calandra, per cui egli è celebre singolarmente. Essa fu allora applauditissima, come vedremo, e forse il fu per quella ragione che fece allora piacere la maggior parte delle commedie, come si è poc’anzi avvertito. Ciò non ostante, ella può rimirarsi come una delle migliori che allor vedesse l’Italia, anche perciò, che l’autore, com egli stesso scherzevolmente confessa nel suo proemio, formossi sul modello di Plauto, e ne tolse ancora non poco. Il Zeno crede (Note al Fontan. t. 1, p. 360) ch’essa fosse la prima volta recitata in Roma a’ tempi di Leon X, senza potere accertarne l’anno; quindi in Mantova la notte innanzi a’ 21 di febbraio del 1520, poscia di nuovo in Roma all’occasione della dimora ch ivi fece per qualche tempo Isabella d’Este Gonzaga marchesa di Mantova, e finalmente in Urbino. Ma io penso che questa che dal Zeno si crede l’ultima, fosse veramente la prima recita della Calandra. Baldassar Castiglione, in una lunga sua lettera al vescovo Lodovico Canossa (Castigl. Lettere, t, 1, Lettere,