Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/113

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108 ester d'engaddi.

Ciò che d’ingrato ha il comandar; lasciarti
Le grazie, la clemenza, i benefizi:
Udir tue lodi da ogni labbro! I sacri
Della profetic’arte alti misteri
Imparerai da me: voler d’Iddio
Fia il voler tuo. Vecchiezza verde io godo:
Ma giovin sei: del regno mio te erede
Lascio: novella Debora tu imperi
Ai figli del deserto, e in guerra o in pace
Assoluta, adorata, unica imperi!
Ester.Terminasti?
Jefte.                         La sorte ecco, ch’io t’offro.
Ester.Ed io rispondo. Ove al tuo dir credessi,
Ove non vedess’io, che tu, d’onesto
Amor parlando e di future nozze,
Tu a nulla aspiri che a sedurre, a sdegno
Pur moveriami l’impudente oltraggio.
D’ambizïon la vile esca mi tendi?
Io glorïarmi di calcar nel fango
L’emule mie? di finger teco il dono
Di profezia, che a’ rei Dio non concede?
Io non al regno nata, a’ piedi miei
Veder curvato un popolo di prodi?
Oh, sì, in me pure è ambizïon, ma tale
Che non la intendi.
Jefte.                                             Spiegati.
Ester.                                                            Onorato
Compagno aver de’ giorni miei; migliore
Di me; tal ch’io, più che d’amor, di stima
Arda per lui; tal, che da Dio il pensiero
Rivolgendo alla terra, il primo oggetto
Che mi s’affacci sia lo sposo: amarlo
Con timor; non con voglia empia d’impero,
Ma con dolce timor, quasi in quel modo
Ch’amo Colui ch’ottimo è solo, e sempre
D’affligger temo: e sposo tal, vederlo
Dell’umiltà della sua ancella pago,
E felice, e più amante indi e più mite,