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Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/137

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132 ester d'engaddi

Com’ uom volgar da una sciagura è il prode?
Eran vèr me tuoi dover tutti? Il duce
Chi d’Israel? non è Azaria? Ti è aperto
Immenso campo di letizia ancora
E di virtù e di gloria: indi ritrarti,
Bassezza fòra, codardia. — Sei padre:
Tocca a me il rammentartelo? Al mio Abele
Fia lieve danno orbo restar di madre;
Ma il genitor parte di vita è a lui:
Da te gli esempli di valor, di grande
Alma, da te ben imparar sol puote.
Ahi, fra straniere mani abbandonarlo
Quel caro pegno, ell’è barbarie troppa.
A te basti ch’io muoia: il tuo rancore
Non stender oltre. Mie sembianze, è vero,
Serba il picciolo Abel: ricorderanti
Ester talvolta, ma ciò a lui perdona....
E ciò un dì forse a te fia caro....
Azaria.                                                       Oh interna
Inesplicabil guerra! oh incanto!
Ester.                                                       Io dolce
Presagio n’ho: caro ti fia la madre
Ricordar del tuo Abel! Breve trionfo
Ha la calunnia: cadrà un dì la larva
Che in Jefte asconde l’avversario antico,
Il rio Sàtana: allor la mia innocenza
Canteran meste le figlie d’Engaddi,
E tu quel canto udendo, alcun sospiro
Mi donerai, tu guarderai pietoso
D’Ester la tomba.
Azaria.                                   Ed io resisto? — Ah, il vedi,
A quale stato di viltà lo hai tratto
Questo altero guerrier! Tue colpe ei scerne,
Del tuo mentire è conscio, ei raccapriccia
In ascoltar di Jefte il nome santo
Profanato da te; pure ad un tempo
Tuoi finti detti il bèan. — D’Ester la tomba?
Non la vedrò giammai!