Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/157

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152 iginia d'asti

E vieppiù dolce, chè d’alcuni l’odio
(Che appellar suoi nemici ei neppur degna)
Palese gli era, e la speranza iniqua
Di veder qui depresso oggi colui,
Al cui braccio, al cui senno, al cui versato
Sangue dèn tutto, e le ritolte a’ guelfi
Sostanze loro e lor codarde vite.
Ma intorno miro, e niun veggio che ardisca
Al non più consol, pur non vil guerriero,
Mostrar dispregio: e di lor taccio io quindi.
Bensì pria di tornarmi alla quïete
Di mie torri paterne, udir vi prego
Dal fido Evrardo, o padri, umil consiglio.—
Fama, il so, e non men cale, io di tiranno
Lascio appo il volgo: ma la guelfa antica
Idra che per sì lunghi anni rinacque
A desolar la patria, io spensi, io solo,
Io, che, di quanti precedeanmi invitti
Capitani, minor, sol li avanzava
Nel ferreo, inesorato, alto proposto
Di non aver mezza vittoria mai!
E chi volgo non è, plaude, e mi basta.
Novo periglio or sorgeria? — Sì. — Quale?
Che il mio nome, esecrato infra gli stolti,
Rechi spavento a chi dopo me il brando
Da voi torrà di console, e si ambisca
L’agevol, ma fatal, gloria di pio:
Gloria fatal, perocchè il lungo regno
D’un inflessibil Romolo ad un Numa
Apparecchiati non ha gli ozi ancora.
Molte in un anno fur mie stragi: poche
Per elevare in Asti ai ghibellini
Impero tal che un dì non crolli, o tosto.
Non io, ma del passato il tristo esempio
Vi parli: dieci volte i nostri padri
Vinsero e perdonaro, e dieci, in premio
Di lor fiacca clemenza, ebber l’esiglio.
Quant’era d’uopo io mi spiegai. Gagliarda