Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/160

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atto primo. — sc. i. 155

Ricovro entro le mura a guelfi dassi.
A tale ardir, che alla città funesto
Farsi potria, non più l’esiglio è pena,
Ma vi s’assegna morte.
Arnoldo.                                        Odi il confuso
Fremito della plebe? — Al genitore
Che il traviato suo figlio ricovra
Più l’esiglio non basta! È reo di morte
Chi di natura non calpesta i dritti,
E al patibol la sua prole non tragge!»
Il fratello al fratello il seno squarci,
E la sposa allo sposo, e il figlio al padre,
O rei fansi di morte! Oh non più udito
Inumano furor! — Chiedean vendetta
L’ombre de’ padri? E l’ebbero: cadute
Son d’infra i guelfi le più illustri teste,
Le sole che nocean. Non basta: il ferro
Del nobil ghibellino ora discende
Ne’ tuguri plebei: cercando il sangue
Di chi? di guelfi? — Ma il plebeo fu guelfo
O ghibellino mai? cieco stromento
Non è de’ forti? — Avidità di preda
Or lo tragge fra queste or fra quell’armi:
Combatte, ma non odia, e al vincitore
Lambisce i piè, purchè gli getti un pane.
Nè chiuder gli occhi si vorrà, se oscuro,
Ma valente guerrier, pentito riede
Alle mura paterne, e nascondendo
Ch’egli era guelfo, ai ghibellin si dona?
Alla deserta patria utili figli
Racquistar non si vonno? — Eh, vergognamci,
Evrardo, noi, se in altri petti è muto
Il vergognar d’ignobili atti! Il fero
Editto mai te difensor non abbia:
Di console prestare il giuramento
Altri potrà, non tu, fratello. — Vieni.
Evrardo. (È quasi scosso dall’autorità di suo fratello, il quale
gli prende la mano per condurlo via.)