Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/172

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atto secondo. — sc. ii. 167

Interpretando di colui che t’ama,
E cui l’alto desio sol d’onorarti
Spinge fuor delle basse orme del volgo!
Te meglio e me conosci: uom, cui donato
Avevi il cor, tal uomo era, o divenne,
Che non più mai disistimare è forza.
Iginia.Oh fia vero? Roberta....
Giulio.                                             E chi rattenne,
So non tu, il ferro mio, quando a’ miei piedi
Cadde Evrardo in battaglia? E chi al superbo
La non merlata libertà rendea?
Tu, Iginia; tu: che indivisibil genio
Me ispiri sempre, e a degne opre costringi!
Iginia.Oh, ben allor mi disse il cor: «Memoria
» Di me Giulio serbò.»
Giulio.                                        Ma incalza il tempo.
L’alta ragion che qui m’adduce ascolta.
Sui ghibellini impreveduto nembo
Rugge. — Tu tremi? Calmati: — propizio
Alla patria ed a noi spunta il futuro.
I rei soli cadranno: i rei — non tutti,
Non tutti, no — suo difensore avrammi
Evrardo.
Iginia.               Oh ciel!
Giulio.                              Di plebe il furor primo
In questo tetto (Iginia, ah, caldamente
Te ne scongiuro) non ti trovi.
Iginia.                                                  Ahi, quando?
Come?
Giulio.          Dimane — a mezza notte — i guelfi....
Ma tu vacilli....
Iginia.                              No.
Giulio.                                   D’Evrardo è usanza
Appo la suora sua teco ad amiche
Veglie recarsi: in quel securo ostello
Diman, ven prego, donne, ivi la sera
Abbiavi. Qui potria l’ira del volgo
Contra la consolar reggia irrompendo