Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/220

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atto primo. — sc. i. 215


Ermanno.                                        Non posso.
Il Conte.Ten prega anco la moglie. Or su, Gismonda,
Che non aggiungi tua dolce parola
A rattener lo sposo?
Gismonda.                              Io fra diverse
Brame ondeggiava.
Ermanno.                         Quali?
Gismonda.                                   O rattenerti,
O mover teco ad allegrar del grande,
Sospirato spettacol mie pupille:
Milano in fiamme!
Ermanno.                              Oh di me degna sposa!
Grato sariami averti a fianco, e i tetti
Avvampanti mirando, «Ecco là, dirti,
Degli uccisori de’ tuoi cari i tetti!»
Ma i perigli pur temo, e a tua salvezza
Mal vegliar potrei forse.
Gismonda.                                        Oh con qual gioja
A quell’orribil vista evocherei
Le sacre ombre del padre e della madre
E de’ prodi fratelli, atrocemente
Tutti della natia Lodi sepolti
Nelle ruine! Oh Lodi mia! quel giorno
Ch’orfana errava io sulle tue macerie,
Invano dunque al cielo io non porgea
Quest’angosciato grido: «Agli atterriti
Sguardi del passeggier simile appaja
Un dì Milano!»
Il Conte.                         Te esaudiva, o figlia,
Te il cielo e noi. Grazie gli sien. Ma quando
Nostre vendette son compiute, al gaudio
Inverecondi non sciogliamo il freno.
Narrasi d’un guerrier che calpestava
Con alto scherno d’un nemico il tronco.
«Non rider della morte; ella t’aspetta
Fra sette giorni!» gli gridò un romito,
E al termine segnato era spirante.
Ermanno.Di Dio alla folgor non applauder? Nostri