Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/242

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atto terzo. — sc. iii. 237

È di cordoglio e di desio di pace,
Mal la parola i sensi intimi svolge.
Gismonda, suora a me ti volle il cielo;
Immemor del passato, oh, a me sii suora!
Gismonda.Immemor del passato! — A me nè danno
Recavi tu nè oltraggio; ed in tua possa
Non era alcun recarmene. Io felice
Esser sapea, qualunque insania o colpa
Te strascinasse ad adorar gl’infami
Di Milano vessilli, e una sua donna.
Non che offesa tenermi io da Ariberto,
Benedetto anzi ho il dì che un nodo ruppe
Stoltamente promesso, e a non ribelle
Cavalier destinommi. — In te il nemico
Odio de’miei, di Cesare, d’Iddio:
Quindi a perdon qual siavi loco ignoro.
Ariberto.A’tuoi nemico e a Cesare, almen pensa,
Se scolparmi non vuoi, ch’io nella turba
Degl’infelici, de’proscritti or gemo.
Iniquo io fossi qual m’estimi — e iniquo
Non esser sento — il fulmin non ti basta
Che mi colpì? Non quell’Iddio, per cui
T’accende zel, non egli oggi palesa
Ch’ei mio lutto compiange e m’ama ancora,
Dacché pur dammi il riveder la fronte
Venerata del padre, e in questo padre
Trovar sì dolce di pietà conforto,
Dopo tant’ira che già l’arse? Ah, spero
Te pur placar. Verace, ossequïoso
In me un fratello avrai, Gismonda; e suora
Tenera a te sia Gabriella. — Ascolta,
Non mi fuggir.
Gismonda.                              Nominarla osi?
Ariberto.                                                           Oh cielo!
Che dici? ferma.
Gismonda.                                   Innanzi a me condurla!
Perfido!
Ariberto.               Degno di te fora, al tempo