Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/288

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atto secondo.—sc. i. 283

Pur Auberto sentia. Messo andò Uggero
Al fero vecchio. Che ottenesse, udite.
Uggero.M’accolse Auberto in mezzo all’armi. Cerchio
Feangli Ghielmo, Ricciardo, Ugo, e i maggiori
Infra i chiusi ribelli.— «Il figlio mio!
(Gridò ferocemente) o il consol tremi, __
Ch’io queste sitibonde aste una volta
Su lui proromper lasci!» — «Auberto, io dissi,
Stagion passò di tracotanza; io vengo
Messagger di clemenza ultimo a rei
Che sull’abisso pendono, e ritrarsi
Più non potrian, se pia una mano ancora
Lo scampo lor non desiasse. Arrigo
In ferri per decreto è del senato:
Guai se il giudicio si pronunci! È morte
De’ felloni il destin. Ma ancor nell’alma
Generosa del console è memoria,
Più che de’ torti del tribun, del nome
Di consanguineo che al tribuno ci dava.
Medïator fattosi quindi, ei l’ire
Del senato rattenne, e asseveranza,
Se la ròcca cediate, offre d’intero
A voi perdono, e libertà ad Arrigo.»
Corrado.Che rispose il superbo?
Uggero.                                             Invan la morte
Gli minacciai del figlio. — «Il popol solo
Della ròcca è signor; di fellonia
Reo verso il popol, se cedessi, io fòra.»
Sì mi rispose.
Enzo.                              Udiste? I ceppi al reo
Sciorre o la guerra sostener. Ma obbrobrio
Non parvi, se assalirne osin gli Auberti,
Noi, che intimando ognor la resa, ognora
Minacciam d’assalirli, e inoperosi
Ognor ci stiam? Non di fiacchezza indizio
Questo sarà che al popolo in dispregio
Ponga la signoria? ch’ansa gli doni
Co’ ribelli ad unirsi? Il popol muto