Pagina:Tragedie (Pellico).djvu/303

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298 leoniero da dertona.

Berengar.                                   Oh, di Corrado mai
Vista la figlia non avessi! A lei
Vincolata ho la fede; e il fier Corrado
Sol della figlia allor la man m’assente,
Ch’io le porte apra del castello. — Orrendo
Arcano ti svelai; tu mi dispregi,
Tu....
Ubaldo.          Nel mio sen pria non leggevi il truce
Contra Arrigo rancor? la bassa invidia
Che mi rodea?
Berengar.                              Che intendo? A lui perdoni
L’usurparsi del popolo ogni plauso
L’oro suo profondendo, e sì a’ più degni
Sovrastar sempre?
Ubaldo.                                   Ah! mio questo linguaggio
Berengario, ben fu; ma dalle labbra
Sincer, no, non usciva. Or vergognando
Tel confess’io: tribuno esser io ambia,
Indi io fremeva contra Arrigo, e iniquo,
E bassamente astuto io mel fingea.
Ma secreto dall’ima coscïenza
Un grido mi s’alzava: «Arrigo è giusto;
Ogn’opra sua l’attesta.» E appena ei cadde
In poter de’ malvagi, invidia ancora,
Ma delle sue virtù punsemi, e forte
Meco arrossii d’aver.... chi odiato?... il primo
Della patria campion.
Berengar.                                   Che più mi resta,
Se il fratel d’armi m’abbandona? Oh! detto
Non t’avess’io....
Ubaldo.                              Nel maggior uopo, o amico,
Io abbandonarti? Ah mi sconosci! io sono,
Che l’odio mio contra gli Auberti in core
Ti scagliai; tu dappria ne inorridivi.
Al retto tuo sentir prevalse a stento
L’empio dir mio. Reo quindi io son, se ascolto
A Corrado prestavi. In altri tempi
A sua vile proposta in suon di sdegno