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Ma si noti, inoltre. Nei pochissimi versi che seguono il racconto dell’araldo, né appare un Nume (come nell’Ifigenia in Tauride) che in un modo o nell’altro legittimi la soluzione prodigiosa, né il coro pronuncia parola che proclami la fatalità, divina, e dunque indeprecabile e incolpabile, di quanto è avvenuto. Il commento consiste tutto in una amara osservazione di Clitemnestra.

T’ha dunque un Nume rapita, o figlia?
Che debbo credere di te? Che quanto
costui m’ha detto non è che favola
vana, a placare questo mio schianto?

Parole che riecheggiano uno scetticismo già espresso dall’infelice regina:

                                     Oh, dissennati
crederemmo gli Dei, se reputassimo
che gli assassini favorir potessero.

Dunque, non può essere che una Dea abbia chiesto il sangue d’una innocente fanciulla. Essa è caduta vittima della presunzione d’un indovino, della stoltezza d’una folla, della viltà d’un padre. Questo lievito d’amarissimo dubbio infonde il poeta nel cuore dei suoi uditori negli ultimi versi del suo dramma. Che, ricondotto, anche qui, alla pura umanità, con l’esclusione d’ogni elemento soprannaturale, ne riesce tanto piú straziante e commovente.

E questa passione pel vero neanche è scevra d’inconvenienti. Appena, nel corso del dialogo, al poeta balena qualche scena che egli veda precisamente, in ogni particolare,