Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) I.djvu/66

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PREFAZIONE LXV

all’infinito, raccoglie in sé i segreti dell’età morte, e chi sa?, delle venture.

E contempla il mondo degli eroi. E, attraverso il canto dei poeti, di Pindaro, di Stesicoro, d’Omero, gli sembra infinitamente piú grande e luminoso del mondo che lo circonda. E in un orizzonte anche piú lontano, e nella luce radiosa dell’Eliso, fulgevano gli Dei della patria, quelli che avevano presieduto alle origini della stirpe, quelli che l’avevano tutelata e resa gloriosa nell’ultimo fiero cimento di vita e di morte col secolare nemico, il persiano. Pallade Atèna, raggiando, dall’Acropoli, sembrava dalla sua fronte augusta illuminare il mondo.

E qui sembra naturalmente inquadrarsi l’altra notizia antica, a prima vista cosí strana, massime a chi ricordi l’antipatia del maturo poeta per la vita atletica: che cioè egli da giovine fu atleta. Poté ben essere, anche questa, una’spontanea e naturale manifestazione di un temperamento artistico, e, perché artistico, preso dalla illusione eroica, di trovare nei cimenti degli agoni quasi un equivalente agli eroismi non potuti compiere in effetto. In molti artisti moderni si è potuta vedere una passione simile, e forse, o certo, originata dalla stessa causa.

E giungono, dopo l’ebbra fanciullezza, gli anni dell’esperienza, della riflessione, degli amari disinganni. A poco a poco, arriva a conoscere l’immensa perfidia dell’animo umano. Maschile e femminile. Due abissi, pieni di mostri diversi, e ugualmente orridi.

E tornando alle figure del mito con occhio critico, scopre che i famosi eroi non valevano piú dei suoi contemporanei, e forse meno. E i Numi, inani favole dei poeti. Alla sua lucida ragione, il mondo apparve quale, a distanza di secoli, doveva apparire al Leopardi: una fantasmagoria perenne, dal nulla