Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/157

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154 EURIPIDE

a Tebe non rechiamo, e d’un sol uomo
sopra la casa ci avventiam, di quello
che d’Alcmèna e di Giove è detto figlio.
Pria che compiesse le sue gesta crude,
salvo egli esser dovea, né fargli danno
ad Era o a me consente Giove. Adesso
ch’à le fatiche ad Euristèo compiute,
Era vuol che di strage consanguinea
si macchi, e i figli uccida; e anch’io lo voglio.
Orsú, riscuoti, o della Notte negra
vergine figlia, il tuo cuore spietato,
e avventa la follia sopra quest’uomo,
e parricidi turbamenti d’animo,
spingi i suoi piedi a dissennato balzo,
molla tutte le gòmene di strage,
sí ch’ei, spingendo d’Acheronte al valico
dei suoi figliuoli la corona bella,
di sua mano distrutta, apprenda quale
è per lui d’Era l’odio, e quale il mio.
Piú nulla i Numi non saranno, e grande
l’uomo sarà, se questi il fio non paga.
furia
Nobili e padre e madre ebbi: dal sangue
del Cielo e della Notte ebbi la vita.
Ed è l’ufficio mio tal, che gli amici
s’allegrano di me poco, né gaudio
è per me frequentarli. Adesso, voglio
Era esortare e te, pria che cadiate
in qualche fallo: i miei discorsi udite.
L’uomo al cui tetto m’inviate, privo