Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/189

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ercole
Ahimè, lievi conforti ai miei malanni
son questi. E creder non posso io che i Numi
vaghi sien mai d’illeciti connubî,
né che le mani l’un dell’altro avvincano
credetti, o crederò mai, né che siano
soverchiatori l’un dell’altro. Un Dio,
se veramente è Dio, di nulla ha d’uopo.
Dei poeti son queste inani favole.
Ma, pure in tanto mal, m’assale il dubbio
che di viltà, se mai fuggo la vita,
sarò tacciato. Ché, se tu non sai
tollerar le sciagure, innanzi all’arme
d’un nemico, saprai restare impavido?
Di non morire avrò forza: verrò
teco alla tua città. Dei doni tuoi
mille grazie ti rendo. Oh, mille e mille
travagli già patii; né mi ritrassi
mai dinanzi ad alcuno, e mai dagli occhi
pianto versai, né mai pensai di giungere
a tale un punto ch’io versassi lagrime.
Or conviene al destin, sembra, chinarsi.
E sia. L’esilio mio, vecchio, tu vedi,
vedi ch’io sono l’uccisor dei figli.
Tu dà sepolcro ad essi, tu componi
le salme loro, onorali di lagrime
— di farlo a me vieta la legge — , adagiali
sovra il sen della madre, e fra le braccia:
pïetosa concordia; ed io la fransi,
misero me, contro mia voglia. E quando
le salme loro avrai sotterra ascose,
abita ancor questa città. Ben misera