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IFIGENIA IN TAURIDE 209


Gara di grazie, e ondanti
chiome, e superbi manti.
Varïopinte ondeggiano
a me d’intorno, mentre il pie’ si slancia,
le belle vesti; e i riccioli
m’ombreggiano la guancia.

Bisognerebbe, dico, riferire, quasi brano per brano, tutta la parte corale. Ad ogni modo, non si può tacere il vaghissimo affresco di Apollo fanciullo che uccide il dragone, e poi va a reclamare da suo padre la esclusività dell’oracolo. Ha proprio la mossa e il calore dell’ispirazione, ed è una delle gemme della poesia mitica corale di Grecia. Prezioso il particolare, che ricorda l’inno omerico ad Ermete, del dolce riso di Giove per la precocità del bambolo, perché esempio forse unico d’umorismo nel teatro d’Euripide, in cui, invece, tanto abbondano l'ironia e l’amaro sarcasmo.

Anche in questo dramma ha gran parte la musica, che straripa dall’alveo del coro, e si diffonde un po’ in tutte le parti. Il primo canto d’Ifigenia in risposta al coro, benché abbia forma anapestica, è una vera e propria monodia. E in canto sbocca, nel suo punto supremo, il gran terzetto. E spesso la musica travolge nella sua corrente anche parti di nessun contenuto lirico, e perciò essenzialmente non musicabili. Come, per esempio, quando Ifigenia propone a sé stessa il dilemma eminentemente pratico:


La via di terra piú che il naviglio
conviene, o l’impeto forse dei pie’?

Euripide - Tragedie, IV - 14