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scena è cosí largamente, cosí efficacemente suggerita come nell’Ifigenia in Aulide.

Già le primissime parole del dramma ci fanno volgere gli occhi al cielo. «Che stella — chiede Agamennone al vecchio servo — è quella che veleggia in mezzo al firmamento?» — «È Sirio, che si affretta presso alle Pleiadi». Ed ecco, le nostre pupille son piene del cielo notturno, e l’astro rifulgentissimo effonde su tutto l’universo la sua luce azzurra prodigiosa.

Ed ecco evocati poi, con poche parole, il mare invisibile e muto, gli uccelli che stanchi dormono fra i rami, i venti che tacciono anch’essi, e col loro tetro silenzio preparano l’orrida tragedia. In questa cerula oscurità, rotta appena dai raggi delle stelle lontane, e dalla breve fioca luce rossastra che sprizza dalla lampada d’Agamennone, si svolge il concitato dialogo anapestico in cui è esposta la lugubre vicenda del dramma. E alla fine, ecco evocata l’alba e la luce del sole: onde tutta la scena rimane inquadrata fra due visioni celesti, notturna e diurna.

Dopo questo bellissimo preambolo, l’ufficio di suggerire la scena rimane affidato piú che altro al coro.

E nei canti della pàrodos, ecco le sabbie d’Aulide, il bosco d’Artèmide fumante di vittime e le navi immobili su la spiaggia, e la loro disposizione, e gli emblemi che hanno su le poppe; e poi, le tende, e i valli, e i destrieri, alcuni dei quali singolarmente descritti; e quadretti di genere: Achille che corre sul lido, in gara con la quadriga d’Eumelo, Diomede che lancia il disco, Palamede e Protesilao che giocano a scacchi: tutto, insomma, il campo acheo, descritto con una precisione e una vivacità veramente emule della pittura.

Del resto, se per un verso questo surrogato della scenografia scàpita di fronte ad una diretta rappresentazione, plastica o dipinta, non è però privo di qualche vantaggio. Esso