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FILOTTETE 113

terminologia non deve indurci in errore. Oggi v’è una drammaturgia e ci sono drammaturgi che sono, per dir cosí, specializzati in tale ramo, del resto interessantissimo, della psicologia drammatica. Ma Sofocle, evidentemente, non volle propriamente dipingere una crisi di coscienza. Egli persegui l’intento fondamentale della sua drammaturgia, di figurare anime in perenne mobilità. Esempio massimo, in questa tragedia, il protagonista, Filottete.

Filottete è da dieci anni nell’isola deserta di Lemno, dolorando per la sua piaga, procurandosi a stento il vitto con l’arco, soffrendo privazioni d’ogni sorta. A rarissimi intervalli, capita qualche navigante sperso, che però non si assume l’incarico di ricondurlo in patria. Ora ha quasi dimenticata l’effigie umana.

Ed ecco apparire improvvisamente Neottolemo. Vista che già di per sé lo allieta: tanto piú che il giovane e i suoi compagni indossano vestiti di foggia greca.

E Neottolemo parla: è greco! L’animo dell’abbandonato s’empie di gioia per il dolce suono della sua terra.

E apprende allora che è il figlio di Achille, d’un suo prediletto compagno d’armi. Ma Achille è morto. Neottolemo è orfano. Filottete incomincia a sentirsi un po’ suo padre; e d’ora in poi non lo chiamerà piú con altro nome che con quello di figlio. E gli narra le sue sciagure, e gli palesa l’odio suo mortale contro gli Atridi e contro Ulisse. E sente che anche Neottolemo è stato offeso mortalmente da quelli — sicché l’odio comune stringe ancora di un anello l’amore che egli va concependo pel giovinetto.

Lo prega allora di ricondurlo in patria; e Neottolemo acconsente a concedergli la grazia che tutti gli hanno negata: lo ricondurrà.

A questo punto, il durissimo Filottete si ammorbidisce, ed ha tocchi tutti tenerezza. Vuole entrare un’ultima volta nella

Sofocle - Tragedie, I - 8