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242 SOFOCLE

dei particolari. La meravigliosa figura d’Antigone assorbe tutta la nostra attenzione, e lascia in ombra, con la sua luce prodigiosa, tutti gli altri elementi del dramma.

E l’impressione complessa e più immediata che essa produce sul nostro spirito, riesce bene adombrata, mi sembra, nelle seguenti parole del Masqueray: «Per comprendere la figura di Antigone, dobbiamo pensare alle nobili statue di Dee e di mortali che Fidia e i suoi discepoli scolpirono pei frontoni e pel fregio del Partenone: sono sue contemporanee. La beltà delle donne d’allora — beltà interamente perduta — era maestosa e semplice, grandiosa e calma, serena e dolce. I volti non erano tormentati da verun pensiero troppo sottile, da verun desiderio: i gesti erano ampii, misurati, tranquilli: le vesti cadevano in pieghe simmetriche, sopra corpi armoniosi e gravi. Antigone, s’intende, non mantiene sempre nel dramma quest’attitudine; ma conserva, nel volontario sacrifizio della vita, una serenità dolorosa che la ricorda».

Non si potrebbe dir meglio. Però, quando dalla impressione generica il Masqueray scende ad una più minuta analisi dello spirito d’Antigone, riesce assai più difficile seguirlo. E ricordo il Masqueray, perché è uno dei più autorevoli e il più recente rappresentante d’uno dei gruppi o «partiti» nei quali sogliono esser divisi gli ammiratori di Antigone.

«Presso i Greci — ragiona, su per giù, il Masqueray — le donne ebbero sempre poca voce in capitolo, e neanche goderono eccessivamente la deferenza e la stima del sesso maschile. Il massimo elogio a cui potesse aspirare una donna, era di dimostrar sensi virili, di rassomigliare ad un uomo. E cosí è avvenuto che Sofocle, volendo esaltare la sua eroina, l’ha troppo mascolinizzata: sicché la fermezza imperiosa della sua volontà ha qualche cosa di pedantescamente virile, che ci lascia un po’ sgomenti. E stringi stringi — parla sempre il Masqueray — riesce più vera ed umana la figura d’Ismene».