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parte della sorella, e spontanea si offre alla morte. Qui, invece, lo sdegno di Elettra, come è piú giustificato, cosí si manifesta in modo meno aspro e violento.

Talune delle mie osservazioni sembrerebbero diminuire il valore della tragedia. Ma quelli che, esaminati da un lato puramente estetico, potrebbero sembrare difetti, forse nella realizzazione scenica si risolverebbero in pregi. La inumanità di Clitemnestra, per esempio, non può non imprimere al suo contrasto con Elettra una immensa vivacità. Del resto, situazioni che alla lettura sembrano insostenibili, nella recitazione risultano invece mirabili: tale, per esempio, nell’«Alcesti» d’Euripide, l’odiosa scena fra Admeto e Ferete.

Ho adoperato l’ipotetico, perché ai nostri giorni non c’è stata una realizzazione dell’«Elettra», come c’è stata per altre tragedie d’Euripide. Ma gli antichi furono sempre entusiasti di questa tragedia. In un epigramma di Dioscoride, un interlocutore chiede ad un altro che maschera sia quella che tiene in mano un personaggio scolpito su la tomba di Sofocle. E quello risponde:

Se Antigone tu dici, non erri; e neppure se dici
Elettra: entrambi i drammi sono capolavori.

Ed è noto che Polo, il celeberrimo attore egineta, fiorito circa mezzo secolo dopo la morte di Sofocle, dovendo interpretare la parte di Elettra, per mettersi nello stato d’animo degno d’un tal capolavoro, nella famosa scena con Elettra, si fece portare un’urna che veramente conteneva le ceneri d’un suo figliuolo morto da poco.

E questo potrebbe anche essere suggello che sgannasse gli austeri filologi i quali, attribuendo agli artisti e al popolo greco la propria squisita sensibilità, seguitano a credere e a far credere che la recitazione greca dovesse consistere in una declamazione gelida e compassata.