Pagina:Ultime lettere di Jacopo Ortis.djvu/116

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114 ultime lettere d’jacopo ortis.

vestigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra sè stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazj dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perchè sono collocato piuttosto qui che altrove; o perchè questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità, che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo.»


Appunto in quella notte de’ 20 marzo ebbe ripassato al tutto i suoi fogli; poscia chiamò l’ortolano e Michele perchè glieli sgomberassero da’ piedi. Poi li mandò a dormire. Pare ch’esso abbia vegliato l’intera notte; perchè allora scrisse la lettera precedente, e sul far del giorno andò a svegliare il ragazzo commettendogli che procacciasse un messo per Venezia. Poi si sdrajò tutto vestito sul letto; ma per poca ora; da che un villano mi disse d’averlo alle 8 di quella mattina incontrato su la strada d’Arquà. Prima di mezzodì era tornato nelle sue stanze. V’entrò Michele a dire che il messo era lì pronto: e lo trovò seduto immobilmente, e come sepolto in tristissime cure: s’alzò; si fe’ presso alla soglia di una finestra; e standosi ritto scrisse sotto la stessa lettera:


Verrò ad ogni modo — se potessi scriverle — e voleva scrivere: pur se le scrivessi, non avrei più cuore di venire — tu le dirai che verrò, che essa vedrà il suo figliuolo; — non altro — non altro: non le straziare di più le viscere; avrei molto da raccomandarti intorno al modo di contenerti per l’avvenire con essa e di consolarla. — Ma le mie labbra sono arse; il petto soffocato; un’amarezza, uno stringimento — potessi almen sospirare! — Davvero; un gruppo dentro le fauci, e una mano che mi preme e mi affanna il cuore. — Lorenzo, ma che posso dirti? sono uomo. — Dio mio, Dio mio, concedimi anche per oggi il refrigerio del pianto.


Sigillò il foglio, e lo consegnò senza verun soprascritto. Guardò il cielo per gran pezzo: poi s’assise, e incrociate le braccia su lo scrittojo, vi posò la fronte. Più volte il servo gli chiese se voleva altro; ei senza rivoltarsi, gli fe’ cenno con la testa, che no. Quel giorno incominciò la seguente lettera per Teresa.


mercoledì, ore 5.

Rasségnati a’ decreti del cielo, e troverai qualche felicità nella pace domestica, e nella concordia con quello sposo che la sorte ti ha destinato. Tu hai un padre generoso e infelice: tu devi riunirlo a tua madre, la quale solitaria e piangente