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capitolo iii. 89


— A me, a mastro Zaccaria, esclamò il vecchio con un terribile impeto d’orgoglio.

— A Voi, mastro Zaccaria, che non potete ridonare la vita ai vostri orologi.

— Ma gli è che io ho la febbre ed essi pure l’hanno, rispose l’orologiaio mentre un freddo sudore gli scorreva per tutte le membra.

— Ebbene, morranno con voi, poichè vi siete impedito di ridonare un po’ d’elasticità alle loro molle.

— Morire! No, l’avete detto! Io non posso morire; io il primo orologiaio del mondo; io, che per mezzo di questi pezzi e queste ruote ho saputo regolare il movimento con una precisione assoluta. Non ho io forse assoggettato il tempo a leggi esatte, e non posso io disporne da padrone? Prima che un sublime genio venisse a disporre regolarmente queste ore smarrite, in quale immensa incertezza era avvolto l’umano destino? Ed a qual momento certo potevano riferirsi gli atti della vita? Ma voi, uomo o diavolo, chiunque voi siate, non avete dunque pensato mai alla magnificenza dell’arte mia che chiama tutte le scienze in suo aiuto? No, no; io, mastro Zaccaria, non posso morire; ho regolato il tempo ed il tempo finirebbe con me, ritornerebbe da quell’infinito da cui il mio genio ha saputo strapparlo e si perderebbe irreparabilmente nell’abisso del nulla. No, io non posso morire, come non può morire il creatore di questo universo, soggetto alle sue leggi. Sono divenuto suo eguale e divido la sua potenza. Mastro Zaccaria ha creato il tempo, se Dio ha creato l’eternità.

Il vecchio orologiaio rassomigliava all’angelo decaduto che si ribellava al Creatore. Il vecchietto lo accarezzava collo sguardo e pareva soffiargli in petto quell’empia collera.

«Ben detto, mastro, replicò egli; Belzebù aveva meno dritti di voi a paragonarsi a Dio, non bisogna che la vostra gloria perisca. Ed io, vostro servitore, voglio darvi il mezzo di domare quegli orologi ribelli.

— E qual’è questo mezzo? esclamò mastro Zaccaria.

— Lo saprete al domani del giorno in cui mi avrete accordato la mano di vostra figlia.