Pagina:Vico - Autobiografia, carteggio e poesie varie, 1929 - BEIC 1962407.djvu/349

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ne l’ozio, solitudine e, per somma povertá di parlari, necessario silenzio, dai fulmine destato

730a contemplar pur finalmente il cielo,

da’ moti insigni degli -eterni lumi animato il credette e ’1 fece dio; e la sua volontá chiamò «’l mio Giove», che scrivesse nel cielo 735col fulmine le sue temute leggi,

o vero pubbJicassele col tuono; che scrivesse nel cielo de l’aquila coi voli gli adorati comandi,

740o li dettasse d’altri augei col canto:

onde ne l’aurea etade fu detto che leggessero le genti l’alte leggi de’ fati in petto a Giove.

E quindi poscia vennero a’ poeti 745quei lor nomi di «vati» e di «divini»,

che fóro «sacri interpreti de’ dèi», quando una cosa istessa era sapienza, sacerdozio e regno.

E questi in quel sommo stupor del mondo 750quei «pochi» fur «ch’amò Giove benigno»,

eh’ over mossi da téma o da vergogna de la vener ferina in faccia al cielo, pentiti del comun brutal errore, presa ciascun per sé soia una donna,

755e credendo i volati degli augelli

fosser cenni di Giove, proseguendo dell’aquile gli auspici in certi sacri orrori, si fermaro de’ monti,

760dove loro mostrò Diana i fonti;

e quivi con le lor donne pudiche