Pagina:Vittorelli - Poesie, 1911 - BEIC 1970152.djvu/101

Da Wikisource.

XXVIII

Lascia che questo labbro,
o Irene mia, lo dica:

— T’amo, vezzosa amica,
quanto si possa amar.

Amo quegli occhi ardenti,
che sono il mio periglio
e che a un girar di ciglio
mi fanno palpitar.

Amo quell’alma ornata
di naturai candore,
ove soggiorna amore
e tenerezza e fé.

Amo quel pronto ingegno,
amo quel brio vivace,
e m’innamora e piace
qualunque cosa in te.

XXIX

Spesso a narrare intesi
che il vedovo poeta
la tigre immansueta
ed il leon placò;

e spesso udii che il suono
de l’anfionia cetra
pietra congiunse a pietra
e Tebe edificò.

Ma le crudeli belve
e gl’insensati marmi,
come sentian de’ carmi
l’altissima virtú,

se Irene al canto mio,
benché pietoso e dolce,
il suo rigor non molce
e indurasi vie piú?