Pagina:Vittorelli - Poesie, 1911 - BEIC 1970152.djvu/248

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12

Sovente pei tinelli quatto quatto,
ove da le pignatte si dispensa
ogni scelta vivanda, ancor m’appiatto,
e gusto le delizie de la mensa:
la paura giammai non hammi tratto
da la mischia piú bellica ed accensa;
ma primo sempre e valoroso in campo
fo balenar de la mia spada il lampo.

13

Non soglio temer uom, benché panciuto
e nerboruto sia, quanto esser voglia:
mordol nel letto suo col dente acuto
senza che il dolce sonno si discioglia;
il calcagno gli prendo e a l’uom feruto
non arreca quel morso alcuna doglia,
e stagnan su le gravide pupille
del fior leteo le rugiadose stille.

14

Due gran cose però temo quassuso
fra l’altre tutte: il gatto e lo sparviere,
eh’ han di straziarmi crudelmente in uso
co gli aspri denti e co l’unghiacce fiere;
e la fallace trappola che schiuso
lascia il varco a l’entrar, ma prigioniere
il sorcio rende, mentre incauto adesca
l’amara troppo ed ingannevol esca.

15

E piú quel gatto si famoso, o Dio!
ne l’assidua de’ topi orribil zuffa:
al buco micidial s’acquatta il rio
e in fargli capolin tosto m’acciuffa.
Abborro il petrosel, né il dente mio
ne l’acquoso cocomero si attuffa:
biete, ravani e zucche io non delibo,
ché lascio nel padule a voi tal cibo. —