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ORAZIO PETROCHI.
I1
Quel Giove adunque, che potea di strali
Vibrar diluvi dall’etereo polo,
E con un cenno, con un cenno solo
Ridurre in polve i miseri Mortali:
5E quel di Numi eterni, ed immortali
In Ciel possenti, e in terna immenso stuolo,
Lasciò cader miseramente al suolo
Questi suoi Templi eccelsi e trionfali!
Qual possanza, o nemico empio destino,
10Legogli il braccio, che io non vedo i noti
Segni famosi del vigor divino?
Oh stolti! E vi fu pur chi tra divoti
Inni di lode, riverente e chino,
Gli offerse doni su gli altari, e voti!
II2
Questa, che miri di cadere in atto,
Già da tremendo fulmine percossa,
Tomba è di quello che fè l’onda rossa
Da’ suoi destrieri per l’arena tratto.
5E mal per lui s’era mancato al parto
Del sommo Giove; ma d’Amor commossa
Potè Diana (e che v’ha, che Amor non possa?)
Qui trarlo salvo con pietoso ratto
Finchè cedendo nuovamente al Fato,
10In questa poi raccolse Urna funesta
Le smorte membra del suo Virbio amato:
Ma Giove alfin, cui nulla ascoso resta,
Contra dell’Urna de’ suoi strali armaio
Ne atterrò parte, e vi riman sol questa.
- ↑ Templi di Giove Laziale sul monte Albano.
- ↑ Sepolcro d’Ippolito.