Pamela/Nota storica

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Nota storica

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Atto III
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NOTA STORICA

Nel 1740 il pubblico inglese leggeva con avidità i primi due volumi della Pamela di Samuele Richardson: nel principio del ’42 cominciò a uscire la versione francese di Prèvost (in collaborazione, pare, con Aubert de la Chesnaye-Desbois), nel ’44 il Bettinelli di Venezia stampava i tre primi volumi della versione italiana (v. Novelle della Rep. lett., per l’a. 1744, p. 233) e nel ’45 il quarto. E le edizioni del nuovo romanzo si moltiplicarono negli anni seguenti in tutta Europa. A Carlo Goldoni forse il Bettinelli stesso diede a leggere quella recente del 1749, prima, si può dire, che la Clarissa fosse nota nel continente (tr. franc. 1751) e che il nome dell’autore inglese risuonasse con maggior grido.

Ma già l’umile fanciulla puritana, come Goldoni ci attesta (Mém.es II, c. 9Memorie di Carlo Goldoni), aveva innamorato i buoni Veneziani e si sentiva il desiderio di ammirarne l’eroismo anche nel teatro. La fortuna di Pamela nel Settecento si spiega subito con le ragioni storiche: è il periodo questo che precede la Rivoluzione, con le sue nobili utopie, coi desideri vaghi d’uguaglianza sociale, col sentimento novello della filantropia, col bisogno di piangere dopo aver molto riso. Inoltre Pamela è il tipo prediletto del popolo, caro alle leggende medievali sacre e profane: è la stessa virtù popolare, l’innocenza che resiste e si salva, la virtù premiata, come dice il titolo del romanzo: Pamela è quasi una sorella minore di Griselda, trasportata nel secolo decimottavo. In Richardson conserva un’unzione di fede puritana, che lasciò per salire sul palcoscenico; e si confonderebbe talvolta, a parte l’audacia boccaccesca di alcuni episodi, con certe eroine dei romanzi religiosi del Seicento, se ben diversa non fosse l’arte dell’autore inglese.

I critici moderni sembrano concordi nell’accusare Richardson di ineleganza, di prolissità, di pedanteria, ma tutti lodano ancora in lui l’osservazione minuta e fedele della vita comune, e una singolare conoscenza del cuore femminile. Ciò doveva piacere al Settecento e segnava anche nell’arte una rivoluzione. Inutile insistere sul trionfo della donna nel Settecento, fenomeno che non ha paragone ai dì nostri, inutile rammentare quanto la donna contribuisse in quel secolo al rivolgimento sociale, letterario e artistico. Come Richardson in Inghilterra e Marivaux in Francia, così a Venezia Goldoni fu studiosissimo dei caratteri femminili; e, a differenza di Molière, moltissime commedie del suo teatro s’intitolano da una donna. Anche negli episodi della sua esistenza, benchè non fosse quella di un dongiovanni, nè d’un cicisbeo, le donne occupano non piccola parte. Nel teatro ricorderemo le sue interpreti, la Passalacqua, la Baccherini, la Medebach, la Marliani, la Bresciani, ecc.; e fuori basta pensare alle avventure giovanili raccontate nelle Memorie, e ancora più alle varie dediche dei suoi componimenti.

Pamela non aveva aspettato il nostro autore per mostrarsi sulle scene: ben due volte nel 1743 aveva tentato di sedurre il pubblico parigino, accompagnata sul teatro degli Italiani per mano di Boissy e alla Commedia Francese da La Chausèe (v. Lanson, N. De La Ch. et la comédie larmoyante, Paris, 1887, pp. 157-160): e il doppio scacco diede occasione agli Italiani di ridere in quell’anno stesso della disgraziata fanciulla (la Dèroute des Pamèla, di Godard d’Aucour). Carlo Goldoni non si accontentò di ricopiare gli accidenti di Pamela, ma conservandole l’ingenuità nativa, mista a prudenza. [p. 102 modifica]ne fece una creazione nuova, più gentile e più vera, le infuse per sempre la vita che nel romanzo quasi più non si trova. Fin dalle prime scene l’illusione del Settecento ci avvolge con una sensazione di freschezza sull’anima: le lacrime di Pamela sembremo bagnare la nostra mano: il mondo poetico è fatto, per potenza d’arte, reale. Sobria la fantasia. L’autore, sfuggendo al pericolo di chi attinge a un romanzo, chiuse con armonia classica l’azione nelle leggi dell’unità di tempo e di luogo, e per la prima volta nel suo teatro, come se volesse compiere opera letteraria, sbandì del tutto le maschere e il dialetto.

Fu un vero trionfo. Nell’ed. Bettinelli un’avvertenza, forse del Medebach, dice: «Questa commedia fu applauditissima, e furono ricercate le repliche in ogni luogo dove si portò la Compagnia. In Venezia fra l’Autunno e il Carnovale del 1750 fu replicata diciotto sere, e prima nell’Estate si fece per la prima volta in Milano.» Le principali edizioni goldoniane affermano invece, nell’intest, della commedia, che la Pamela fu recitata primieramente a Mantova, e a Mantova almeno fu scritta. I Veneziani la udirono sulla fine del novembre, per quanto si legge nei diari del Gradenigo: «28 Novembre [1750]. Commedia nuova nel Teatro di S. Angelo, intitolata la Pamella, o sia la Virtù premiata» (Notatorio I: presso il Museo Civico di Venezia). Teodora Medebach, l’interprete di Bettina (la Putta onorata) potè questa volta godere gli onori più grandi (v. anche {{{3}}}Memorie di Carlo Goldoni). L’entusiasmo popolare giunse a tal segno, che un merciaio, chiamato Domenico Fanello, il quale aveva bottega sul ponte dei Baretteri, partigiano ardente di Goldoni, pensò di esporre per insegna la Pamela; e gli restò affibbiato il ridicolo soprannome (v. sonetti satirici di G. Baffo, in cod. Cicogna 2395, già 1882, nel Museo Civico Correr di Venezia). Un altro ammiratore, il N. H. Alvise Foscarini, mentre ricordava in una epistola martelliana la «sì deliziosa - Pamela, che in Italia fece tanto romore», non esitava di affermare «che sola basterebbe per dar nome all’Autore». (e. s.) Persino i giornali di erudizione parvero accorgersi che sul teatro italiano qualche cosa sorgeva e viveva. Le Novelle della Rep.a letteraria, appena la commedia uscì a stampa, lodarono sinceramente «l’arte fina del fingere, del dilettare insieme e dell’istruire, che appare nel principio, nel mezzo e nel fine» (Ven., 1753, n. 24); e la Storia letteraria d’Italia del p. Zaccaria così riferiva: «La Pamela è più a tragicommedia somigliante, che a commedia, ma gli affetti vi son trattati con molta forza e con rara delicatezza» (t. VII, Mod., 1755). Solo un anonimo, in certa Lettera ad un amico inedita e senza indicazione di luogo e di tempo, stentava a credere che l’autore avesse «appreso dal Libro del Mondo» «il vero ritratto di questa virtuosa Pamela», trovava madama Jevre sboccata, insoffribile il carattere del conte d’Auspingh, la «dizione talvolta umile troppo ed abbietta», e se concedeva a Goldoni un posto nel «secondo genere di commedie, dette volgarmente istrionate», non gli permetteva di decorarsi del «fastoso nome di Riformatore del Teatro Comico in Italia» (cod. cit.).

Ma ecco intanto la villanella di Richardson, ingentilito il sangue col riconoscimento della nobiltà paterna, e perduta sotto il cielo di Venezia la timidezza rustica, passò di nuovo le Alpi, per sedurre altri cuori con la soavità dei modi. Nel 1756 si stampò a Londra la traduzione inglese col testo italiano a fronte (Spinelli, Bib.ia gold.) e a Danzica la prima traduzione tedesca. Altre edizioni [p. 103 modifica]e versioni si ebbero in Germania e in Austria negli anni 1757 (Danzica), 1758 (Vienna), 1761 (Francoforte e Lipsia), 1765 (Vienna). 1893 (Lipsia); in Portogallo negli anni 1766 e 1790; in Ispagna nel 1796 (Valenza); in Norvegia circa il 1800; in Grecia nel 1806; in Russia nel 1812; in Boemia nel 1887 ecc. (v. Spinelli, 1. c.; e Maddalena, schedario inedito), in Francia la Pamela fu tra le poche opere di Goldoni più note e più fortunate: la tradusse da prima nel 1759 a Parigi il signor De Bonnel du Vaiguier; poi nel 1793 la ridusse in 5 atti, in versi, Francesco di Neufchàteau; finalmente un’altra versione più fedele stampò nel 1800 Agostino Amar Du Rivier (Les chef-d’oeuvres dram.es de Ch. G. traduits pour la première fois en français avec le texte italien etc, Lyon et Paris, an IX, t. I).

Pamela restò cara al teatro, e vanta fino ai di nostri un numero infinito di recite: si può anzi dire che con la Locandiera e con altre serva quasi termine di paragone all’arte delle maggiori attrici. Ricordiamo fra le interpreti più applaudite, dopo la Medebach, Anna Fiorilli Pellandi, Amalia Vidan Griffoni, Carlotta Marchionni che iniziò con la Pamela, a Firenze, di 17 anni, i suoi trionfi di capocomica, Natalina Andolfati, Isabella Belloni Colomberti, Amalia Bettini, Tina di Lorenzo ecc. (v. Rasi, I Comici italiani). Memorabili, fra le recite, quella di Tina di Lorenzo e Tommaso Salvini (Bonfil) a Firenze nel 1893, per onorare il primo centenario della morte di Goldoni; e quella della compagnia Grammatica a Venezia nel 1907, per il secondo centenario della nascita. A Livorno (6 febbr. 1893) le si aggiunse 1 ornamento di un prologo martellano (v. Dalla Torre, Saggio di una bibl.ia delle op. di C. G, Fir., 1908. n. 885).

Eppure la presente commedia non trova favore presso tutto il pubblico, nè ottenne l’unanime consenso dei critici. Lasciamo da parte il Baretti (Frusta letteraria, 1764, n. 17), a cui non accade mai di lodare nulla. Se piacque assai nel periodo del Romanticismo, via via fino a Ferd. Galanti, che la chiamò «un vero giojello» e «nel suo genere, un capolavoro» (C. G., Padova, 1882, pp. 210-211 ), parve riuscire ingrata quando il naturalismo invase. Così il Molmenti accusò le tirate declamatorie (C. G., Ven., 1880); Vernon Lee il piagnisteo, e la pose in mazzo con la Persiana e la Peruviana (Il Settecento in It., Mil., 1882, II); il Masi non le lasciò posto nella sua Scelta; il Rabany la relegò in appendice, gettandole l’appellativo di dramma sentimentale (C. G., Paris, 896, p. 332); e finalmente il Malamani la giudicò «al di sotto - e quanto! - de I puntigli delle donne» (L’Ateneo Ven. a C. G., 1907, fase. I, p. 39).

E invero per godere e per ammirare la Pamela goldoniana è indispensabile munirsi di quel vivo sentimento storico, più ricco in certi periodi, che ci permette di sopportare senza impazienze le prediche morali e il romanzo. Non si capisce e non si gusta altrimenti gran parte del tesoro artistico trasmessoci dal passato. Tutto nella Pamela conserva l’impronta del tempo, perfino il riconoscimento di Andreuve, a cui erano abituati e ben disposti gli spettatori. Artificio, senza dubbio, ma non vile, nè assurdo. Della sollevazione di Scozia, nel 1715, molti più vecchi si dovevano ricordare: storie e romanzi ne parlavano tuttavia: Roma aveva accolto l’esule cavaliere di S. Giogio, Giacomo III; e ancora l’ultimo degli Stuardi, Carlo Edoardo, nel 1745 con pochi montanari aveva osato minacciar Londra, e fogli recenti narravano le prove [p. 104 modifica]eroiche dei fuggiaschi. Voltaire, dieci anni dopo, si ricordasse o no di Goldoni, introdusse pure nella Scozzese (rec. 1760) un nobile proscritto che ottiene la grazia dal Re. Senza quell’episodio, l’azione restava forse monca, e non a torto l’autore si compiaceva della trovata, che conciliava l’arte e la moralità del Settecento. Poichè si aveva un bel ridere delle serve divenute padrone, e e si poteva spingere, sul teatro, la familiarità di servi e padroni fino all’inverosimile, ma contro i matrimoni disuguali gridavano scrittori liberalissimi in tutta Europa; e l’aristocratico Voltaire nella Nannina (o il pregiudizio vinto: attinta alla medesima Pamela di Richardson, nel ’49) dove un conte sposa una villana, fece opera vuota d’arte e non sincera di tesi. Se Goldoni abbia letto la commedia di Voltaire, e quando, è difficile dire: certo non prima del 1753 (v. l’Autore a chi legge), tanto più che della lingua francese pareva ancora inesperto. (P. Toldo, in Giorn. stor., 1898, vol. XXXI, 343 sgg., fu troppo facile ad affermare; peggio Bertoni. C. G. e il teatro franc, del suo tempo, in Modena a C. G., 1907, p. 411. Invece J. Merz, C. G. in seiner Siellung zum französischen Lustspiel, Lipsia, 1903, negò ogni rapporto fra Nanine e Pamela). Anche Marivaux del resto, benchè anonimo, aveva dato alle scene nel 1746 il Pregiudizio vinto e aveva sposato una marchesina povera con un ricco borghese: ma l’audacia era propriamente nel titolo (si ricordi inoltre le Jeu de l’amour et du hazard, 1730). Lascio Destouches che, vecchio, s’inspirò a un tema in parte non dissimile, salvandosi poi, come Goldoni, col mezzo d’un riconoscimento (la Force du naturel, rec. nel febbr. 1750, pochi mesi avanti la Pamela, e trad. da Gasp. Gozzi, 1754).

Chi vorrà perciò accusare Goldoni di timidità? Il gran problema del secolo decimottavo, se il privilegio sociale della nascita e del sangue debba aver ragione sulla legge naturale, era qui posto in azione, e risolto almeno nell’animo degli spettatori. Pamela vinceva, Bonfil non era riuscito nè a sedurla, nè a scacciarla, madama Jevre (A. III, sc. 3) precorreva ingenuamente le teoriche di G. G. Rousseau, il pubblico piangeva e applaudiva (G. Ortolani, C. G. nella vita e nell’arte, Ven., 1907, p. 64; e L. Falchi. Intendimenti sociali di G. G., Roma, 1907, p. 71). Era la società che sconcertava «il bellissimo ordine della natura»; la società, che non avrebbe tollerato l’umile Pamela sposa di Milord (v. sc. 2, A. II) e che non vince già col prezzo della virtù i suoi pregiudizi. Neppur facciamo colpa al torvo governo della Serenissima. L’anno stesso della Pamela goldoniana, i Veneziani battevano le mani nel teatro di S. Samuele alla Marianna ossia l’orfana del Chiari, tolta dal noto romanzo di Marivaux; e l’anno appresso, com’è probabile, alla Contadina incivilita dal caso e alla Contadina incivilita dal matrimonio, dello stesso abate bresciano: commedie ricavate da un romanzo del cavaliere di Mouhy (la Paysanne parvenue, 1735) nel quale, circa un lustro prima di Richardson, la Giannetta univasi in matrimonio con un marchesino.

«Non so» scriveva Goldoni «se su tal punto saranno i perspicacissimi ingegni dell’Inghilterra di me contenti», (v. l’Autore a chi legge) Il Baretti, credendosi interprete di quel popolo, rispose di no (Frusta, l. c.): ma ho sospetto che avrebbe non meno biasimato un matrimonio disuguale. Più feroci si mostrarono i giacobini di Francia nell’agosto del 1793, quando costrinsero Francesco di Neufchàteau a togliere a Pamela la nobiltà, e quando ai 3 [p. 105 modifica]settembre, non contenti ancora, facero arrestare insieme con l’autore tutti gli attori e le attrici del Teatro della Nazione, che soffersero undici mesi di carcere. (Ed. et J. de Goncourt, Hist. de la socièlè franç. pendant la Rèv., Paris, 1854, pp. 332-4; si consultino G. Barini, Pamela reazionaria, in Rivista teatr. it., Nap., 1902 ed E. Masi, Pamela e M.e Angot, in Fanf. d. dom. 17 febbr. 1 884). Anche contro Goldoni salirono grida di reazionario per la sua ingegnosa trovata, ma il glorioso vecchio era morto già dal febbraio, senza pensione.

Una minuta analisi della commedia ci rivelerebbe certe bellezze che nei capolavori del poeta maturo non si ritrovano. Pamela stessa è una così dolce e delicata figura di fanciulla, che nel teatro merita un posto per se; e dev’essere perdonata se due o tre volte parla troppo a lungo, per un difetto acquistato dalla sorella puritana. Quasi sempre i suoi dialoghi scorrono perfetti; le parole sembrano vivere; i suoi pensieri inteneriscono. «Quand’essa in atto di congedarsi dal troppo caro padrone si mette agli occhi il grembiale; ho veduto far il medesimo de’ lor fazzoletti a quanti v’erano uomini di buon cuore meco in teatro» racconta da giovane Luigi Carrer (Vita di C. G., Ven., 1825, III. p. 95). E ciò ottiene l’autore, si badi, senza mescolanza di tragedia, semplicemente, con la sola forza del rimpianto per la persona che parte. La sensibilità sì, come nella Buona moglie, come nel Cavaliere e la dama e in altre, ma tragedia mai: anzi milord Bonfil è un po’ comico fino negli impeti, e comica è quasi sempre madama Jevre, comico il vecchio Longman: caratteri del tutto nuovi e originali nell’opera di Carlo Goldoni. Il cavaliere Ernold aggiunge poi la satira degli imitatori della moda straniera e dei viaggiatori, comune ormai nel Settecento. Il terzo atto della commedia, più noioso per noi, non manca tuttavia di abilità drammatica, e destò sempre ammirazione (v. per es. Dom. Gavi, Della vita di C. G., Milano, 1826, p. 153. Sparse osservazioni, e raffronti con la Pamela di La Chaussèe, si leggono nella citata scelta di Amar Durivier. Il buon bibliotecario è specialmente innamorato di milord Artur e di Jevre).

Con saggezza aveva attinto il Goldoni al romanzo di Richardson, benchè con poco rispetto del colore esotico, in questa sua prima commedia che si svolge fuori d’Italia. I nomi stessi, per non dire il carattere, dei personaggi soffersero modificazioni (p. es. Daure invece di Davers, Andreuve invece di Andrews, Jevre invece di Jervis, come si trova nelle versioni francese e italiana); qualcuno fu poi inventato (Bonfil era il nome a Venezia d’una ricca famiglia israelita). Non già inutile, bensì lungo sarebbe un particolare esame di raffronto degli episodi. Basta la scena della seduzione a cui Pamela sfugge (A. I, sc. 6), vicino a quelle descritte dall’autore inglese, per mostrare la diversità dei due ingegni e dei paesi.

La fortuna della Pamela goldoniana doveva, come si capisce, eccitare la fantasia degli emuli, e innanzi a tutti, dell’ab. Pietro Chiari, il quale infatti nell’autunno del 1753 riusci a far applaudire una romanzesca Pamela maritata, rifusa alcuni anni dopo (1759) in versi martelliani e data alle stampe. Leggeremo più avanti, con titolo uguale, la continuazione più famosa fatta a Roma dal Goldoni medesimo (ree. 1760) e dedicata nella stampa a Voltaire. Nel 1764 uscì a Bologna e a Venezia una Pamela schiava combattuta, in [p. 106 modifica]endecasillabi sciolti, attribuita a C. Lanfranchi Rossi (Ricci, I teatri di Bologna. Bol. 1888, p. 487): della quale basterà accennare che «l’azione si rappresenta in Costantinopoli, nel palagio del Gran Visir». E nel 1765 a Napoli erano già edite le due Pamele di Francesco Cerlone, nubile e maritata, con Pulcinella e D. Fastidio servi di Bonfil. Non è dunque meraviglia, se qualche cosa anche in Francia derivarono Voltaire e Diderot (Toldo, l. c, e ivi, 1895, vol. XXVI). Che più? Goldoni ancora ricavò dalla fonte inesausta un piacevole drammetto, la Buona figliuola, musicato la prima volta a Parma nel 1756 dal Duni; poi nel 1760, con favore grandissimo, dal Perillo a Venezia e dal Piccinni a Roma (Spinelli, Bib.ia 177-8; C. Musatti, Dr.i music.i di G. e d’altri tratti dalle sue comm., Ven., 1898; A. Cametti, Critiche e satire teatrali romane del Settec, Torino, Bocca, 1902; e altri): e quindi dal Piccinni portato a Parigi, dove lo tradusse, parte in prosa e parte in verso, il Cailhava (v. Thèàtre de M. Cailhava, Paris, 1781, tt. 2; e Rabany, C. G. cit., 401-2). Nè va dimenticato che la stessa Pamela nubile trovò chi nel 1800 la ridusse a dramma comico-serio e la musicò a Parma (m. G. Andreozzi), e chi nel 1804 la deformò in farsa (G. Rossi) e la musicò a Venezia (m. P. Generali), e chi, non so in quale anno, la costrinse in opera buffa (G. Poppa) e la musicò a Roma (m. G. Farinelli).

Un’ultima parola intorno al titolo. Quando fu recitata da principio, chiamavasi Pamela, come stampò l’edizione Bettinelli. Nell’edizione Raperini, e in quelle che la ricopiarono, sta sempre scritto la Pamela. Nell’edizione Pasquali, dovendo uscire accanto alla Pamela maritata, assunse l’appellativo di Pamela fanciulla, che si legge solamente nel frontespizio (in testa alle varie pagine restò per brevità Pamela). Con quest’ultimo titolo (o anche di Pamela putta) si recitò e si ristampò (anche dal Masi e dal Bonsignori) nel Settecento. Per primo forse lo stamp. Zatta di Venezia, nel 1788, la chiamò Pamela nubile, è incerto se per desiderio di Goldoni, o per qualche ricordo di Fr. Cerlone: e tale titolo le rimase poi nelle recite e nelle ristampe dell’Ottocento. Oggi che Pamela maritata non osa più affacciarsi sul palcoscenico, non sarebbe meglio tornare al nome più antico e più bello?

G. O.


La presente commedia fu stampata la prima volta dagli eredi Paperini a Firenze nella primavera del 1753 (t. I) e quasi contemporaneamente dal Bettinelli a Venezia (t. V): seguiti l’anno stesso a Bologna dal Pisarri e dal Corciolani (t. IV), a Pesaro dal Gavelli (I), e nel ’56 a Torino da Fantino e Olzati (I). Usci ancora nel I tomo delle edizioni veneziane Pasquali (1761), Savioli (1770). Zatta (1783), Garbo (1794); e si trova nella ed. torinese Guibert e Orgeas (1, 1772), nella lucchese del Bonsignori (I, 1788). nella livornese del Masi (II, 1788) e in altre del Settecento. Il patrizio Ottaviano Diodati l’accolse nel 1762 nel t. IV della sua Bibl.a teatrale it. (Lucca) e l’adornò di un’incisione. Di recente la commentò «ad uso delle scuole» Emma Boghen Conigliari (Torino, Paravia, 1902). — Questa nostra ristampa fu condotta principalmente sul testo dell’ed. Pasquali, e reca in nota le poche varianti.

Intorno al marchese Carlo Ginori (di Firenze. 1701-1757) a cui la commedia è dedicata, famosissimo per la fabbrica delle porcellane a Doccia e per i commerci iniziati in Oriente, governatore di Livorno dal 1746, ricordato da Gold. anche nei Mèm.es (I, ch. 48)Memorie di Carlo Goldoni, si consulti la nota di G. Mazzoni (ed. Barbera. Firenze, 1907. 1, p. 445) e si legga il lungo articolo nel voi. VII del Nuovo Dizionario istor., Bassano, Remondini, 1796.