Per la storia della cultura italiana in Rumania/I. Primi contatti fra Italia e Rumania/II. Corrente filologica

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I. Primi contatti fra Italia e Rumania - I. Introduzione I. Primi contatti fra Italia e Rumania - III. Relazioni storiche e contatti di cultura

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II

Corrente filologica



1. La letteratura rumena è un dono del Rinascimento.

Come l’Egitto era per i latini un dono del Nilo, così la letteratura rumena può dirsi un dono del Rinascimento. Esso feconda la steppa desolata, dove non attecchivano che le pallide e basse betulle della letteratura ecclesiastica in antico slavone (risultante per la massima parte di traduzioni mal fatte) con due rivi, uno dei quali, come abbiamo accennato, parte dalla Polonia (ed era destinato a irrigare ben poco terreno e a estinguersi dopo aver fecondato solo qualche zollo ai confini della Moldavia); l’altro, (che, per l’unione avvenuta il 1697 di una parte del clero ortodosso con la Chiesa Cattolica, metteva capo a Roma), partiva dalla Transilvania, ed era destinato a trasformar l’arida steppa in fiorito giardino.

2. Influenza polacca.

Al rivo polacco si è dato, a mio vedere, troppa importanza, in quanto che, grazie ad esso, i rumeni non acquistarono per la prima volta, ma semplicemente riacquistarono quella coscienza della loro origine latina, che, in seguito al loro distacco dalla Chiesa di Roma, depositaria e propagatrice della civiltà latina nel medioevo, avevan finito col perdere. Dal 1199 al 1207, una serie di documenti dei Regesti Vaticani ci mostrano Innocenzo III tutto intento a rassodare i [p. 7 modifica] legami che ancora univano alla Chiesa romana i popoli di Bulgaria e di Valachia, sudditi allora de’ medesimi Principi. Orbene in una delle sue lettere il Pontefice, mentre annunzia l’invio di legati apostolici, e chiede quali siano i desiderii del Principe (Ioannitius, ma egli si firma Caloiohannes, Imperator Bulgarorum et Blachorum); non dimentica di ricordar l’origine latina d’uno dei due popoli, sui quali esso Principe regnava, per trarne argomento a conchiudere „ ut sicut genere, sic sis etiam imitationc Romanus et populus terrae tucie, qui de sanguine Romanorum se asserit descendisse, Ecclesiae Romanae instituta sequatur ut etiam in cultu divino mores videantur patrios redolere”. 1 Rileviamo da questo passo, come, verso la fine del secolo XII, il popolo rumeno e il suo Principe (è chiaro che qui dei Bulgari non può esser questione) ritenessero di essere legittimi discendenti degli antichi Romani, che Ioannitius lo avesse scritto al Papa, e che il Papa se ne fosse servito abilmente pe’ suoi fini. Se aggiungeremo a questa prova, l’altra che in documenti di poco posteriori, riferentisi cioè al pontificato di Onorio III e di Gregorio IX, si parla assai spesso di città rumene di Transilvania come di „villa latina”, „vicus latinorum” etc., per distinguerle da quelle ungheresi o sassoni che le attorniavano2 potremo conchiuderne, che, finchè prevalse l’influenza della Chiesa romana, tanto in Valachia che in Transilvania, si ebbe coscienza dell’origine latina della popolazione; e che questa coscienza disparve solo quando i rumeni si lasciarono attrarre nell’orbita bizantina, dove per essi non c’era nulla da guadagnare. Restarono infatti, com’è risaputo, del tutto fuori del movimento culturale bizantino, e, perduto ogni contatto con l’occidente cattolico, adottarono per le funzioni del culto e l’amministrazione della giustizia, la lingua slava parlata a quei tempi dai Bulgari, sotto il [p. 8 modifica]dominio dei quali si trovavano, non conservando con Bisanzio altri rapporti che religiosi, e anche questi assai larghi e intermittenti.

Ho voluto richiamare su codesti documenti de’ Regesti Vaticani l’attenzione dei lettori, perchè mi sembra siano stati a torto trascurati (in quanto testimonianza antichissima della coscienza che i Rumeni avevano ancora nel secolo XII della loro origine latina) da quasi tutti 3 gli studiosi che si sono [p. 9 modifica] occupati di questi primi albori di letteratura rumena, i quali incominciano presso che tutti dall’Unione delle Chiese e dalla Scuola latinista di Transilvania.

Se però, da codesto punto di vista, l’importanza del rivo polacco è stata esagerata; per ciò che riguarda l’influsso che, attraverso la Polonia, il Rinascimento italiano potè esercitare sulle origini e il successivo sviluppo della letteratura rumena, non è stato al contrario preso nella dovuta considerazione. Eppure basta dare soltanto un’occhiata ai lavori del Ianocki 4, del Ciampi 5, dello Zeissberg 6 e del Dieterich 7, per citar solo i maggiori che si sono occupati dell’attraentissimo tema; per accorgersi dell’importanza che per gli studiosi di letteratura rumena può avere la diffusione in Polonia delle idee e delle tendenze del Rinascimento italiano 8 Augurandomi di potere io stesso tornar tra non molto sull’argomento, accennerò qui per sommi capi i fatti principali che più da vicino riguardano il nostro tema.

A capo degli umanisti polacchi troviamo, verso la fine del secolo XVI, Zamoyski 9 che non fu soltanto il grande uomo [p. 10 modifica] politico e il valente generale che tutti sanno, ma anche un uomo coltissimo, che aveva fatti i suoi studii in Italia, improvvisava con facilità eleganti versi latini, gustava ed apprezzava degnamente la bellezza delle opere antiche.„Il suo castello polacco“, ci fa sapere il Iorga, dal quale attingiamo queste notizie, „sembrava la villa d’un principe italiano del Rinascimento” 10 Intorno a Zamoyski, altri umanisti gareggiavano nello studio della lingua, dello stile e delle bellezze classiche, soprattutto latine: Heidenstein 11 suo segretario e Lasicki, 12 e, più di tutti, Alessandro Guagnini 13, un italiano emigrato in Polonia, „gran traduttore” 14, [p. 11 modifica]al cospetto di Dio „di testi polacchi nella lingua di Cicerone e di Virgilio” 15 Questi sono gli autori, che, insieme con Kobierzycki, Wassenberg, Koiolovicz, Kochowski, Rudowski ed il celebre Zaluski 16, autore di elegantissime epistole latine, influirono più degli altri sopra due dei più antichi scrittori rumeni: Grigore Urechie e Miron Costin 17 Quest’ultimo in ispecie è tanto im[p. 12 modifica]pregnato di cultura classica che persino il suo periodare rumeno se ne risente. Si legga il seguente ritratto di Alexandru Voda Lăpușneanu e si neghi, se si crederà possibile, la somiglianza colla prosa, specie parenetica, dei nostri cinquecentisti: „El cumuș era blând și cucernic de o-dată tutulor Alexandru Vodă, areta direptate. De carte nu era prost, la calărie sprinten, cu sulità la halca nu lèsne avea protivnic; a sàgeta cu arcul nu putea fi mal bine. Iară ce era mai de trebă domniei, lipsia: că nu cerea la sfat bătrânii” 18. Con ciò non intendiamo — Dio ce ne guardi! — obbligare nessuno a ritenere assodato l’influsso potuto esercitare dai nostri prosatori volgari del quattro e del cinquecento sul periodo e lo stile di Miron Costin 19 Potrebbe anzi darsi [p. 13 modifica]benissimo che d’italiano l’antico 20 cronista rumeno non sapesse uno iota, malgrado che il modo come egli parla dell’Italia in genere e di Padova in ispecie possa far supporre il contrario 21 Ad ogni modo è chiaro, che, anche senza conoscer l’italiano, il latino dei nostri umanisti— molti dei quali furono alla corte dei Jaghelloni— e quello dei loro infiniti imitatori polacchi, poteva ben produrre il medesimo effetto, di fargli cioè, un po’ inconsciamente per via dell’uso, un po’ di proposito per una certa quale sallustiana ed erudita civetteria arcaizzante di storico buongustaio, modellare il suo periodo rumeno su quello del Giovio e del Guagnini se non proprio su quello di Cicerone e di Livio. Ma quello che c’interessa di più è di cogliere sulle labbra medesime del Costin, la menzione di Roma e dell’origine romana dei Valacchi, associata all’opinione di un dotto polacco, lo Zamoyski, dal quale, evidentemente, mostra averne avuto notizia. Dopo infatti aver parlato a lungo del nome, „Italia” ed aver rilevata la somiglianza fra le due parole di Vlah e Voloh, con cui i magiari designano rispettivamente gli abitanti della Rumania e dell’Italia, conchiude rivolgendosi al lettore con un calore e una spontaneità che commuovono: „Mirati adunque ora, o lettore, come in uno specchio, e tieni mente d’onde trai l’origine tua, sbarazzandoti di tutte le fole che molti hanno scritte intorno a te, sia per ignoranza che li abbia traviati; sia per l’invidia, che mai, neppure un giorno, è cessata di esistere tra le nazioni; forse anche per aver prestato fede a gonfie e vane menzogne”. 22 Tra codesti „inventori di favole” intorno all’origine del popolo rumeno, Miron Costin annovera (e non sapremmo dargli torto) Enea Silvio Piccolomini, seguendo il quale, Zamoyski, Ureche ed altri han fatto derivare il nome di Vlah da un Flaccus, generale romano che fu un tempo a capo del paese. [p. 14 modifica] Con una ingenuità che sarebbe adorabile, se non ci sorgesse il dubbio di un’intenzione ironica, Miron Costin osserva che „questa opinione di codesto Enea non è peregrina, visto ch’egli non ha fatto che leggere certi versi d’un cherico chiamato Ovidio” 23, del quale non manca di ricordare l’esilio a Tomi 24 a causa di „certi libri che egli scrisse in versi d’amore” 25 e avevan prodotto l’effetto miracoloso di „empir tutta Roma di prostitute” 26. I versi di Ovidio, ai quali allude Costin, e che riporta saporosamente tradotti in quel suo antico rumeno così ricco di attrattive, sono i seguenti delle Epistolae ex Ponto:

Praefuit his, Graecine, locis modo Flaccus; et ilio
      Ripa ferox Istri sub duce tuta fuit.

Hic tenuit Mysas gentes in pace fideli:
      Hic arcu fissos terruit ense Getas.
                                         (Liber IV, eleg. IX),

Del classicismo... geografico del Rinascimento, grazie al quale persino i Turchi ripeterebbero la loro origine dal Teucro dell’Eneide, avremo più innanzi occasione di riparlare. Quello che c’importa qui di rilevare non è questo; bensì come Miron Costin derivasse la notizia dal Piccolomini, attraverso lo Zamoyski, di cui fa espressamente parola nella Prefazione al lettore (Predoslovia cătră cetitorii aceștii cărți) sulla prima colonizzazione romana della Moldavia e l’origine latina del popolo rumeno. Dopo infatti aver ricordato l’ipotesi piccolominiana derivante Vlah da Flaccus, il nostro cronista esce nella seguente esclamazione: „Umiliamoci al pensiero della miseria umana! Ma ce n’è un altro [inventore di favole sull’origine dei Rumeni] di nazion sua Polacco, Jan Zamoyskie, che-cieco! — sostiene gli abitanti della Moldavia e della Muntenia, nè gli uni nè gli altri trarre origine da’ Romani; ma, passando di qui e attraversando [p. 15 modifica] queste contrade Trajano imperator de’ Romani, e lasciandovi soldati a guardia, un certo numero di Daci aver solo allora adottata la lingua latina 27. Risulta di qui: 1) che gli umanisti polacchi discutevano ancora 28 ai tempi di Miron Costin della questione posta dal Piccolomini; e 2) che tali discussioni trovavano un’eco negli scritti di quei rumeni che, in quell’epoca di preponderanza polacca nella politica della loro patria, venivano frequentemente a contatto con quella civiltà, che tanto aveva risentito e risentiva ancora de’ benefici effetti del nostro immortale Rinascimento. Del che pare sia pienamente convinto V. A. [p. 16 modifica] Urechie 29 che, a p. 97 delle sue Schițe, finisce anche lui col domandarsi: „Una così grande esuberanza nella manifestazione della nostra latinità nel secolo XVII sarebbe mai dovuta unicamente ad una reazione contro la corrente slava?” Alla qual domanda egli risponde: „Io propendo ad attribuire una grande importanza, per ciò che riguarda la formazione di un tal convingimento nazionale, alle università polacche ed in ispecial modo al fatto (che rappresenta per noi rumeni una fortuna) che in codeste università i Jaghelloni chiamarono ad insegnare numerosi professori italiani.” 30

Riassumendo, un bel giorno ad Enea Silvio Piccolomini (che non doveva certo ignorare gli sforzi d’Innocenzo III per attrarre i Rumeni nell’orbita del Cattolicesimo e probabilmente sapeva pur della famosa lettera, in cui Ionità afferma sè e il suo popolo de Romanorum sanguine descendisse); salta il ticchio di voler dimostrare codesta tesi dell’origin latina de’ Valacchi con una di quelle etimologie cervellotiche, di cui i nostri vecchi pareva avessero il privilegio, e, trovato il suo bravo ubi consistam in quattro sonanti versi d’Ovidio, eccolo ad affermare con quella medesima sicurezza colla quale lucus si faceva derivare a non lucendo come qualmente Vlah non rappresenti che una pura e semplice corruzione del latino Flaccus. Ma il Rinascimento italiano ben presto emigra in Polonia: con Arnolfo Tedaldi e Pandolfo Collenuccio dapprima, più tardi con Filippo Bonaccorsi e fa sì che ai tempi dello Zamoyski, quando la Polonia faceva per l’appunto l’occhio di triglia alla Moldavia, si conoscesse tra’ quei „barbari” abbastanza latino da legger nel testo le opere del Piccolomini 31 e da trarne la notizia del famoso Flaccus [p. 17 modifica]generale romano e primo colonizzatore della Dacia. Sarà vero? Gli uni sostengono, gli altri negano l’etimologia piccolominiana. Qualcuno, tirando l’acqua al mulino politico polacco, non riconosce neppure l’origine latina dei Rumeni e li considera slavi puro sangue come i Bulgari, coi quali formarono un tempo un solo impero. Dalla polemica che ne deriva, due boiardi moldavi, che da qualche tempo vivono in Polonia, apprendono, o semplicemente si conferman nell’idea già loro balenata più volte, d’esser figli di Roma. I due boiardi diventano subito due storici, i due primi storici del popolo rumeno, al quale annunziano, raggianti in volto di sublime alterezza, la buona novella che gli echi dei Carpazii, invisibili araldi dell’avvenire, diffondon giù nelle valli: [p. 18 modifica] „Da Roma discendiamo e di parole romane è misto il nostro dire” 32. È la seconda volta che un tale annunzio è bandito da labbra rumene e ciò dimostra senza dubbio che, almeno latente, la coscienza dell’origine latina esistesse in fondo ad ogni cuore rumeno; tuttavia, perchè all’annunzio facciano eco le turbe, è necessario che un fatto della più alta importanza metta i rumeni di Transilvania a diretto contatto con Roma.

Questo fatto è l’unione avvenuta il 1697 in Transilvania tra le due chiese cattolica e ortodossa.

3. Influenza transilvana.

Non essendo mia intenzione di occuparmi in queste pagine di codesta corrente filologica, se non come di un precedente necessario a intendere i primi contatti letterarii italo-rumeni, tradurrò qui le belle pagine, nelle quali il Jorga ne traccia magistralmente le origini in una sua conferenza 33sulle „Idee direttrici del popolo rumeno” tenuta il 1904 alla „Società delle Donne Rumene” con molte altre, che, raccolte insieme e corredate di documenti, di note e di excursus del più alto interesse, formano ora i tre eleganti e densi volumi della „Istoria Românilor in Chipuri și Icoane” pubblicata dal Socec di Bucarest.

„Nel secolo XV” — dice il Iorga — „l’Europa occidentale incominciò a discernere, qualcosa di là dai confini imposti dalla religione. Nel pensiero, nel sentimento e nell’arte del mondo [p. 19 modifica]antico scoperse una ricchezza, una bellezza e un’utilità che, fino ad allora le eran rimaste ignote. S’iniziarono allora ogni sorta di ricerche intorno a codesto passato così lontano; si studiaron da per tutto le lingue classiche; in qualsiasi ramo dell’attività spirituale dei popoli nuovi, l’antichità classica venne con assiduo studio imitata.

Codesto movimento, che si rivelò incomparabilmente fecondo e dette origine a una nuova letteratura, a una nuova arte, più tardi anche a una scienza nuova e ad una filosofia fino ad allora sconosciuta, poteva in Oriente diffondersi solo in quei paesi, nei quali la lingua latina (in particolar modo) fosse ben nota, in quanto fin da principio aveva rappresentato la lingua della Chiesa e dello Stato. L’Ungheria dunque e la Polonia se ne poterono avvantaggiare, e fu gran fortuna per loro; noi [rumeni] invece che ci servivamo sì nei pubblici ufficii, che nelle pratiche del culto della lingua slava, no. Conservammo quindi per quasi un secolo una letteratura povera, circoscritta ad opere meramente religiose, e, non potendo queste neppur essere originali, a traduzioni, che, per giunta, non eran sempre ben fatte.

Un’altra conseguenza del Rinascimento fu che la vita romana, molto meglio conosciuta della greca, fu ammirata e imitata in tutti i modi. I nomi italiani, tedeschi, francesi, persino ungheresi e polacchi, si travisarono allora in modo che sonassero latini e le località geografiche si ribattezzarono anch’esse nello stesso senso. Ognuno cercò di mettere in relazione le origini del suo paese e del suo popolo con gli antichi tempi gloriosi de’ Romani e de’ Greci. Persino i Turchi si trovarono un bel giorno ad esser discendenti da quel Teucro ch’è menzionato nell’Eneide, e non furono in seguito chiamati altrimenti che Teucri; i Francesi avrebbero avuto qual progenitore un Francus; i Secui della Transilvania non eran che Seculi, Siculi e perciò Siciliani.

Proprio in quei giorni, alcuni figli di boiardi, esiliatisi volontariamente dalla loro patria, studiavano in Polonia su libri che parlavan quasi esclusivamente di Roma. Costoro doveron naturalmente riconnettere il nome di „Rumân” e di lingua „rumâneasca.” con quello di „Romani”. La rassomiglianza della lingua rumena alla latina s’impose dunque fin da principio. Orbene a quei tempi non era possibile si facesse differenza di sorta tra l’origine del popolo e quella della lingua. La lingua [p. 20 modifica] era chiaramente derivata dalla latina? Noi non potevamo esser che latini. Venne così a cadere d’un tratto la pesante cortina di disprezzo, di povertà e di avvilimento che ci copriva. L’aureola di Roma ricinse allora la fronte del contadino asservito, del boiardo alla mercè del capriccio dei turchi. Per quanto basso fossimo caduti, la scoperta d’una origine romana era pur sempre qualcosa. Primo scopo da prefiggersi doveva quindi considerarsi l’illustrazione di una tal discendenza. Per noi, senza dubbio, ma anche per quegli stranieri, che s’erano lasciati andare un po’ troppo leggermente a parlare della „barbarie” dei Valacchi.

Fin dai tempi di Vasile Lupu (1634 — 1653), Grigore Urechie, frequentatore a’ suoi tempi delle scuole latine di Polonia, scrive: „De la Rîm ne tragem, și cu a lor cuvinte ni-i amestecat graiul” 34 . Dallo scrittore italiano del secolo XV Enea Silvio Piccolomini, egli per il primo 35 raccoglie la notizia, che qui da noi sarebbe stato un tempo un certo Flaccus, „Hatman rîmlenesc” 36, che naturalmente Enea Silvio aveva inventato lui 37 per rendersi ragione del nome di „Valahi”. Ma Urechie si ferma qui, seguitando a raccontare in rumeno la storia dei Voda di Moldavia e solo la [p. 21 modifica] storia loro. Miron Costin, della generazione che tien dietro immediatamente a quella di Urechie, sa molto di più: troviamo in lui, in mezzo a una gran quantità di confusioni e di errori, tutti gli elementi del passato romano. Malgrado si occupi soltanto della Moldavia, questo boiardo liberale e dotto comprende nella ricerca delle più lontane origini del nostro popolo anche gli altri rumeni, non esclusi gli Aromîni del Pindo, e li definisce tutti Italiani veri e proprii.

Ed ecco che un uomo, che non aveva questa volta studiato in Polonia, ma proprio in Italia (a Padova, dove si recavan molti dall’Oriente) lo stolnic 38 Constantin Cantacuzino, prende a raccontare anche lui (sempre prima dell’anno 1700) di Traiano e degli Imperatori Romani che regnaron sulla Dacia dei nostri progenitori. Con maggior chiarezza, sicurezza maggiore e maggior ricchezza di particolari che non avesse fatto Miron Costin del quale non ebbe notizia, il Cantacuzino ci parla del primo stabilirsi dei Romani nelle nostre terre, che Cantemir aveva chiamato „descălecatul” 39, cioè prima discesa o prima colonizzazione.

Finalmente lo spirito del Rinascimento viene accolto, per via delle lezioni impartitegli da un greco che conosceva assai bene il latino e aveva studiato in Italia, da Dimitrie Cantemir, il dotto figliuolo di Constantin Cantemir. Nutritosi lo spirito, durante tutta la giovinezza, dell’assidua lettura dei classici, si trovò, quando esule e privato del trono fu costretto a riparare in Russia, nel caso di poterci dar l’opera più estesa che possediamo, riguardante la più antica epoca della nostra storia: Hronicul Romîno-Moldo-Vlahilor 40 Per lui non c’è ormai più alcun dubbio, non solo che siamo latini, ma che nessuna circostanza ha mai potuto allontanarci neppure una sola volta dalle terre conquistate dalle legioni di Trajano. Codesti uomini, ai quali si può aggiungere un diligente integratore e compilatore, Nicolae, il figliuolo di Miron Costin, avevan tutti lavorato senza conoscersi e senza fondarsi l’uno sul lavoro dell’altro, [p. 22 modifica] ma partendo tutti dalla medesima fonte: gli studii umanistici, che gli uomini del Rinascimento avevano iniziati. I lettori però di tali opere (storiche) erano a quei tempi assolutamente pochi: qualche vecchio boiardo isolato. I lettori comuni, — un po’ più numerosi e preti per la maggior parte —, si limitavano alla lettura dei libri sacri. Nessuna quindi di tali opere vide la luce per le stampe e rimasero un pezzo dimenticate. Se non che, intorno a quell’epoca, una parte dei Rumeni di Transilvania passò, per consiglio dei gesuiti 41 alla Chiesa Romana, con la quale si unì. Pur conservando— malgrado l’unione — la lingua del rito, gli usi ecclesiastici, e il matrimonio dei preti; per ciò che riguarda il dogma, gli „uniti” furon da questo momento una cosa stessa con Roma. Le scuole cattoliche di Sâmbata-Mare in Ungheria, quelle di Vienna e della Città dei Papi furon perciò d’ora innanzi frequentate anche da scolari rumeni, che vi accedevano— con discreta conoscenza del latino — da Blaj, dov’era la residenza del nuovo vescovo unito. Orbene da Vienna e da Roma tornarono tra il 1770 e l’80 tre giovani monaci rumeni: Samuil Micu (Klein), Gheorghe Șincai e Petru Maior, che non avevano affatto l’intenzione di viver rinchiusi e in tonaca al monastero. Tutti e tre avevan lo stesso pensiero: dimostrar l’origine romana del nostro popolo, di cui s’eran convinti prima ancora di aver lette le cronache di Moldavia e di Muntenia. E infatti nel libri che scrissero, andarono assai più lontano di quelle: i caratteri cirillici in uso fino allora dovevano a poco a poco essere smessi, il rumeno bisognava fosso scritto con lettere latine e in modo che la radice latina si potesse riconoscere a prima vista. Infine i suoni „stranieri” e le parole „straniere” dovevano essere abbandonati, almeno nella lingua scritta.

Un’altra novità è rappresentata dalla pubblicazione di codesti scritti. Grazie alle scuole ecclesiastiche, a quelle di stato, ed alle altre istituite di qua dai monti dai Principi che si dissero „Fanarioti”, la cerchia dei lettori s’era di molto allargata. Per costoro si stamparono successivamente due libri di Petru Maior, [p. 23 modifica] uno dei quali 42 fu confiscato, e il „Dizionario di Buda” 43 Codesto dizionario etimologico non dovè godere di una gran diffusione. Tutti invece lessero la „Storia dell’origine dei Rumeni della Dacia”, che, in poco più di dieci anni, ebbe due edizioni e fu, d’ora innanzi, la Bibbia dell’idea latina. Il maestro Lazăr di Avrig, che il 1817 passò i monti e venne in Rumania per fondare a Bucarest la prima scuola nazionale, credeva in questa Bibbia, sotto l’influsso della quale crebbe in Transilvania un gruppo di giovani, quali Ioan Maiorescu, Papiu Ilarian, August Laurian, Simion Bărnuțiu, che, fieri della loro discendenza latina, promossero i moti del 1848, li organizzarono secondo la tradizione romana e li descrissero in lingua latinizzata. Or bene codesti giovani passarono tutti, o prima o dopo il 1848, di qua dai monti ed esercitarono sull’insegnamento rumeno un’influenza preponderante. Ioan Maiorescu è infatti il fondatore delle scuole di Craiova, Laurian di quelle di Bucarest e della Moldavia, Bărnuțiu dello Studio di legge di Jassy. Qui da noi, Gheorghe Asaki in Moldavia e Ioan Radulescu soprannominato Eliade in Muntenia, credettero con tutta la forza del loro animo nell’origine latina del nostro popolo, che, dal primo di essi che aveva studiato a Roma, fu anche cantata in bei versi; ma non accettaron l’idea di modificar la lingua, modellandola sulla latina e neppure di scriverla con sole lettere latine. Eliade è infatti inventore di un sistema ortografico misto, che è durato per qualche tempo e fu adottato anche in Moldavia.

Si giunse così fino al 1860, quando si poser le basi di una Romania una. Si fondò allora l’Accademia Rumena di Bucarest e suo primo pensiero fu la formazione d’una lingua letteraria, quasi che la lingua letteraria non fosse, — ad eccezione s’intende di qualche neologismo scientifico che era pur necessario d’introdurre, — un fatto compiuto sin dai tempi delle prime pubblicazioni ecclesiastiche. Laurian ed il suo scolaro Massimu si addossarono il compito del vocabolario, che apparve il 1871 in due [p. 24 modifica] grandi volumi e produsse una profonda meraviglia. La lingua infatti vi appariva ripulita, essendole stata sottratta una buona metà dei vocaboli, mentre l’altra metà aveva subito storpiature d’ogni sorta, perchè se ne vedesse meglio la derivazione dal latino. Si studiava in quegli anni nelle scuole la Storia dei Rumeni di Laurian, che cominciava da Romolo e Remo e contava gli anni dalla fondazione di Roma. In Transilvania pontificava il canonico blasiense Timotei Cipariu, che, ad onta della profonda conoscenza che possedeva della lingua e del suo natural svolgimento, scriveva con una ortografia di parata e quasi sempre con parole „avite”.

Decisamente più lontano di così la scuola latinista non poteva andare per ciò che riguarda la lingua; ma negli studii storici durò ancora molto tempo, benchè mitigata. Ciò che ne resta al presente è l’opinione che siamo Latini, che abbiamo spirito latino, che siam buoni fratelli di tutti i Latini. Di qui — non c’è dubbio— la nostra gran simpatia per la Francia, la sorella maggiore, il parlar che facciamo nella sua lingua, l’imitazione di essa, (Eliade preferiva però l’imitazione della lingua italiana), la facile ospitalità che trovan nella nostra lingua sì letteraria che scientifica ogni sorta di neologismi francesi, l’alimentazione della „lattante” letteratura rumena con la francese, l’emigrazione giovanile a Parigi. Nel latinismo di Laurian convien cercare non solo l’origine di quella specie di francorumeno in cui ha scritto p. es. Mihail Zamphirescu, ma anche di quella moda letteraria francese, cui Bolintineanu ed il medesimo Alecsandri han servito tutta la vita, nonchè delle idee filosofiche, politiche e letterarie che han qui da noi imperato decine e decine d’anni; in una parola di tutti i prestiti inconsiderati e ridicoli che la „sorella minore” si è creduto in dovere di contrarre con la sorella „maggiore”.

L’accoglienza entusiastica preparata da Bucarest agli studenti italiani, le ovazioni in mezzo alle quali il Signor De Gubernatis ha fatto il suo ingresso trionfale in Bucarest (ovazioni che del resto sì son prodigate ad uomini come il Pèladan e il Signor Leo Claretie, nipote d’uno scrittore ben noto), la gita a Roma d’un gruppo rumeno che comprendeva in sè tutti gli elementi del comico, il viaggio posteriore, ricco di disillusioni, che si fece non in Italia, ma à Roma, attraverso l’Italia; son tutti [p. 25 modifica] sintomi della corrente latinista in decadenza. La quale cominciò con Samuil Micu e passò a miglior vita con Badea Cârțan” 44

Ora a chi, p. es., volesse sapere chi sia questo povero Carneade così bistrattato (con altri quasi-innocenti, quali il De Gubernatis, il Pèladan e il Claretie) dall’ironia caustica del Iorga non potrei rispondere se non che si tratta d’un povero e ingenuo pastore, avido di dottrina e di luce, che, avendo letto o sentito raccontare dell’origine romana della sua gente, fece a piedi il suo pellegrinaggio a Roma e alla Colonna Trajana, ai piedi della quale si fece persino arrestare dalle nostre guardie di pubblica sicurezza, cui la pretesa del pastore rumeno di passar la notte fra le rovine del Foro dovè sembrare per lo meno assai strana.

Deriso da tutti, e, quel ch’è peggio, da’ suoi medesimi compatrioti, a me questo donchisciottesco „cioban” 45 di Transilvania fa simpatia; nè solo perchè meta dell’amoroso suo pellegrinaggio era la città sacra ad ogni cuore italiano e civile; ma anche perchè ho imparato dal Mazzini 46 ad adorar l’entusiasmo anche nelle sue forme più umili e a non disprezzare i sogni delle anime semplici.


Note

  1. 1. Reg. An. V. ep. 116. fol. 33. Theiner, Velera Monumenta Shworum meridionalium, I, pag. 16. Cito dai „Documente privitoare la Istoria Românilor (1199—1345) culese și însoțite de note și variante de Eudoxiu de Hurmuzaki (publicate sub auspiciile Academiei Române și ale Ministerului Cultelor și Instructiunii Publice). Bucuresti, 1887, vol. I, partea I, pagg. 4—5.
  2. 2. cfr. Frjer, Codex diplomaticus Hungariae, Budae, 1829, V, II, 128: „Tam Saxonibus quam Latinis“ e IV, III, 209: „intra villam Toplam et lalinam (Olaszi) existentes“, dai quali passi si vede che si fa differenza di razza, non di religione, come qualche storico vorrebbe.
  3. 1. Non da Dimitrie Onciul, che, a p. 20 delle sue: Originile Principatelor Române, Bucuresti, 1899, si vale anche lui di questa testimonianza a dimostrare la nazionalità rumena degli Assani: „Tutte queste notizie contemporanee li mostrano rumeni, col chiamarli Valachi e col distinguerli dai Bulgari. Ioaniță, fratello minore di Pietro di Assan, che successe al trono, si riconosce egli stesso, nella sua corrispondenza con Innocenzo III, di origine romana. Invano dunque alcuni storici slavi tentano rivendicare al loro popolo gli Assani, facendone dei Bulgari. La nazionalità rumena degli Assani non può mettersi in dubbio.” Ho notizia di questo passo dell’Onciul dal mio collega e amico Vasile Pârvan, il giovanissimo e valente Professore di Storia Antica dell’Università di Bucarest, il quale mi avverte anche di una corrente che non riconosce ai passi da me citati l’importanza che l’Onciul e qualche altro ci annettono. Or bene l’avere io scritto le righe del testo, cui questa noia si riferisce, senza aver notizia che sull’interpretazione del documento da me allegato esistesse una controversia, interpretando nel modo che mi è parso il solo possibile i documenti pubblicati nelle collezione Hurmuzaki; mi sembra possa servir di prova, che, a mente spregiudicata, i medesimi non siano suscettibili d’un’altra diversa. Aggiungo che la reazione alla Scuola latinista, tendente negli studii storici a cancellare ogni orma di dominazione slava, sia, come tutte le reazioni, ecceduto,mettendo in dubbio ciò che altrimenti sarebbe stato chiaro come la luce del sole, ed è tempo che questa reazione sia fatta rientrare ne’suoi giusti limiti, si che, per paura di cadere in un eccesso, non si finisca col cadere nell’altro opposto. Bene dunque A. D. Xenopol, (Istoria Românilor din Dacia Traiană, Iasi, 1890, 11, 222): „....gli scrittori bizantini non sono i soli a parlarci di Valacchi) e a considerar come tali i capi della rivolta. Il Papa Innocenzo III nelle sue lettere a Ionita dà a costui ripetutamente il titolo di domn e più tardi quello d’Imperatore dei Bulgari e dei Valacchi e dice similmente in più luoghi che sì Ioniță che il suo popolo, CHE SONO ORIGINARI DELL’ITALIA, dovrebbero perciò a più forte ragione accettare la religione cattolica. Gli slavisti cercano subito di conciliar questa testimonianza colle loro opinioni e considerano le parole del Papa intorno all’origine romana di Ioniță, come nient’altro che un complimento che il Papa faceva al bulgaro per indurlo a convertirsi più presto al cattolicismo e che l’astuto bulgaro accettò volentieri e prese sul serio. Noi crediamo che una simile interpretazione rappresenti quanto di più sforzato sia possibile immaginare e sia anzi tale da non meritare una critica sul serio se non in quanto è sostenuta da studiosi di riputazione scientifica indiscussa. Non è strano che i complimenti del Papa concordino così bene con quanto ci tramandarono i pretesi falsificatori di Costantinopoli?”
  4. Ioan-Daniel Ianocki, Litterarum in Polonia Propagatores, Dantisci, 1746.
  5. Op. cit., ma specialmente le Notizie dei secoli XV e XVI sull’Italia e la Polonia, Firenze, 1833.
  6. Zeissberg, Die Polnische Gcschichlschreibung, Leipzig, S. Hirzel, 1873.
  7. Karl Dieterich, Die osleuropaischen Literaturen in ihren Hauptsrömungen vergleichend dargestelll, Tubingen, Mohr, 1911.
  8. Vi accenna, come avremo agio di vedere di qui a poco, il Iorga nella sua bella Storia della Letteratura rumena nel secolo XVIII, I, 23— 24; ma l’argomento meriterebbe una trattazione compiuta, che non è certo qui il caso di tentare.
  9. „Giovanni Zamoyski”, scrive Sebastiano Ciampi, (op. cit. p. 31), „oltre la sua perizia negli affari politici, e militari, si distinse nella protezione delle Lettere, e de’ Letterati nelle sue Terre, la città di Zamoscia, ed eressevi una scuola di Università delli studii mantenuta a sue spese, e de’ suoi successori, chiamandovi là varii Professori italiani illustri, e d’altre nazioni”. Studiò a Padova, ed amò sempre, quanto gli durò la vita grandemente la nazione italiana”, cui si dimostrò sempre grato e riconoscente, dell’appresa dottrina, fino al punto da ripetere „spesso non senza compiacenza: Palavium virimi me fecit, alludendo alla Istruzione letteraria avuta nella famosa Università padovana, della quale fu ambe Rettore Magnifico, di che sempre dura l’illustre memoria, specialmente per li Statuti Accademici nel tempo del suo Rettorato Accademico. Ma non solamente in parole si mostrò affezionato all’Italia. Ritornalo in Patria, vi chiamò e vi protesse letterati italiani, Professori Italiani invitò con larghi stipendii alla Università che istitui nella sua città di Zamoscia, e generalmente quali suoi concittadini i culti italiani, che là viaggiavano, rispettò e accolse.” Cfr. I. Ciampi, lettera dedicatoria delle sue Notizie de’ secoli XV e XVI sù l’Italia, Russia e Polonia ecc., Firenze, Allegrini e Mazzoni, 1833, riprodotta nella citata Bibliografia ecc., pp. 133—34. Scrisse: De perfecto Senatore Syntagma; Oratio in funere Gabrielis Fatoppi mutinensis (Venetiis, 1562); De senatu romano (Venetiis, 1563); De constitutionibus, et immunitatibus Almae Patavinae Universitatis (Paduae, 1564); De transitu Tarlarorum per Pocuciam (Cracoviae, 1594); Epistolae diverse ad Gregorium Papam XIII, ad Sigismundum III, etc. Fu in relazione con molti fra i più dotti umanisti italiani, fra i quali Paolo Manuzio, che il 1561 gli scriveva „con espressioni di somma lode”. Cfr. Epistolae et Responsa pubblicate dallo Zamoyski a Cracovia il 1587.
  10. N. Iorga, Istoria literaturii românești în secolul al XVIII-lea, București, Minerva, I, pp. 23—24.
  11. Il Ciampi non fa che citarne l 'Affectus in Virginem Mariam IV orationibus expressus, stampato a Roma il 1643.
  12. Non ricordato dal Ciampi sotto questo nome; ma probabilmente in Lasicki sarà da vedere quel Ioannes de Lasko, autore dell’Oratio ad Leonem X. Pont. Max., in oboedientia nomine Sigismundi Regis Poloniae praestita, etc., in Concistorio publico die lunae XIII Iunii, An. Dom. 1513 e di una Defensio verae semperque in Ecclesiis receptae doctrinae de Christi Dom. Incarnatione adversus Memnonem, stampata anch’essa a Roma, il 1545.
  13. Alessandro Guagnini, n. a Verona il 1538, morto a Cracovia il 1614, è l’autore di quella Sarmatiae europeae descriptio, edita a Spira il 1581, che il 1543 fu tradotta in italiano dal Rev. Bartolomeo Dionigi da Fano (Venezia, Giunti) e il 1612 in polacco (ed. di Cracovia) dal Pasztowki. Per quest’opera il Guagnini fu accusato di plagio, ma il Ciampi dimostra come tutto in fondo si riduca all’avere il Guagnini adottato il titolo di Sarmatia europea già usato da Mattia Stryikowski in un’opera dello stesso genere.
  14. Questo giudizio è del Iorga (op. cit., loc. cit.,) ma è forse un’eco delle accuse di plagio fatte al Guagnini dagli storici polacchi, invidiosi della dottrina davvero vastissima che codesto straniero mostrava nella trattazione di un tema così ampio e irto di difficoltà. „Parole non ci appulcro” e me ne rimetto all’autorità del Ciampi che al plagio non crede.
  15. Iorga, ibid.
  16. Non ignaro della nostra lingua, se il 1748 potè tradurre in polacco una poesia di... Claudio Pasquini (La moderazione nella gloria) per il Natalizio „della Reale Maestà di Maria Giuseppa regina di Polonia”, e, quel che più importa „molti drammi del Metastasio”, che si rinvengono „sparsi tra le sue Poesie stampate in Varsavia l’anno 1752, tomi due, dove si contengono anche delle sue poesie originali in lingua italiana.” Cfr. Ciampi, op. cit. art. Zaluski Josephi Andreae.
  17. Cfr. Iorga, op. cit., loc. cit. Fra gl’importatori del movimento della Rinascita in Polonia, va ricordato Filippo Bonaccorsi (Callimachus Experiens) n. il 1437 in San Gemignano, di famiglia però originaria del Veneto, m. a Cracovia il 1 novembre del 1496. Ne parla brevemente il Platina nella Vita di Paolo II e, largamente, mettendo a profitto numerosi mss. della Laurenziana e della Barberiniana, il Ciampi. Non si sa bene per qual ragione si vide costretto a fuggire da Roma, dove faceva parte dell’Accademia Pomponiana e rifugiarsi (dopo lungo peregrinare attraverso l’Egitto, l’Asia Minore, la Grecia e l’Ungheria)in Polonia. I Libri peregrinationum suarum, di cui qualche biografo ci parla e che potrebbero darci qualche lume sull’argomento, nessuno li ha mai visti; e una lettera pubblicata dal Ciampi, di sul cod. vat. 2869, vi accenna con tanta circospezione e indeterminatezza da farci ricordare di Ovidio, quando ci parla del famoso carmen e del non meno famoso ed enigmatico error. Pare che la tempestas suscitatagli contro nefuriorum hominum opera et insimulatione, alluda al sospetto fatto concepire a Paolo II, che, sotto quel cangiamento di nomi degli Accademici Pomponiani, „potesse celarsi qualche segreta congiura contra lui, o qualche società meno religiosa”. Se ciò possa ritenersi probabile non sappiamo; certo è che il Bonaccorsi fuggì da Roma il 1467, proprio quando Paolo II infieriva contro gli Accademici della Pomponiana. Giunto in Polonia, „vi fu bene accolto da una ostessa in Leopoli, che egli poi celebrerà co’ suoi versi latini in mille modi per sua benefattrice col nome di Fannia Swentoka, e poi, conosciuto dal Vescovo di quella città, Gregorio Sanoceo, si fece strada alla stima e alla protezione dei principali signori del regno”. Le sue lettere, conservateci del cod. barberiniano 1731 (ignoro la nuova segnatura barberiniano-vaticana) ce lo mostrano in relazione epistolare col Poliziano, l’Acciaiuoli, il Ficino, Lorenzo dei Medici, Bartolomeo della Scala, Ugolino Verino, Lorenzo Strozzi, in una parola coi più celebri fra i nostri umanisti. Del resto il Ciampi ci attesta (e la sua testimoniansa è del massimo interesse per il nostro argomento), che „sino da quel tempo le comunicazioni e le corrispondenze tra la Polonia e l’Italia erano assai frequenti”, giacchè la famiglia dei Medici e il Re Casimiro avevano stretta amicizia fra loro”, e il Bonaccorsi era stato preceduto in Polonia da Arnolfo Tedaldi e Pandolfo Collenuccio. La figura di un umanista riconoscente a’ suoi benefattori non è, dopo tutto, troppo frequente, onde tanto maggior simpatia c’ispira il nostro Callimaco che alla povera ostessa, dalla quale fu amorevolmente ospitato, consacrò più di due terzi de’ suoi numerosi epigrammi, cantandola coi più teneri nomi e le più squisite eleganze. Cfr. G. Voigt, Die Wiederbelebung des classischen Alterthum, Berlin, 1859, pp. 481 sgg.: Schcinbare Reaction anter Paulus II, e G. Uzzieli, Francesco Bonaccorsi da S. Gemignano in Misc. Storica della Valdelsa, 1898, p. 33. Si veda anche l’opera un po’ farraginosa, ma ricchissima di documenti e di notizie di Vladimiro Zaboughin, Giulio Pomponio Leto, Roma, Vita Letteraria e Grottaferrata, Tip. italo-orientate, Vol. I e II, passim.
  18. Miron Costin, Opere complecte după manuscripte cu variante și note... tiparite sub auspiciile Academiei Române de Gb. A. Urechia, Bucuresti, 1888, II, p. 337.
  19. Anche un suo epigramma (op. cit., II, p. 509) al Prea Sfintitului Parinte Dosoftei proin Mitropolit Suceawschi:

    Cine-și face,
    zid de pace,
      turnuri de frăție,
    Duce viață
    fară grèță
      întrânsa bogăție.
        s. c. l.

    ricorda, se non in altro nel metro, le poesie del Chiabrera: Se bel rio, se bell’auretta e Del mio sol son ricciutegli; nè possiamo fare a meno di veder l’influsso di quei distici latini che nelle opere storiche e parenetiche del Rinascimento si solevan porre sotto stemmi e ritratti d’illustri personaggi nell’epigramma intitolalo Niamul țerei (op. cit. II, p. 510) in cui, con uno stile da leggi delle XII tavole, Miron Costin insiste sull’origine latina del suo popolo:

    Nèmul tèrei Moldovei de unde derèză
    Din tèra Italiei tot omul sa crèză.

  20. Antico s’intende nel senso in cui questa parola è usata dagli storici della letteratura rumena.
  21. Alludo sopra tutto alle seguenti parole: „Cine au fost la Italia să vadă pre Italieni, să-i ia aminte, nu-i va trebuì mai mare devedă să crează cum un nèm sunt cu Moldovenii” (op. cit. I, p. 385).
  22. Op. cit. p.1,385: „Cată-te dèră acum, cetitoriule, ca într’o oglindă, și te privesce de unde esci, lepădându dela tine tote cele-l-alte basme, câte unii au insemnatu de tine, de nesciintă retaciți, altii de zavistie, carea din lume intre nèmuri n’au lipsitu nici uă dată, altii din buguite scornitura și deșèrte.”
  23. Op. cit., I, 38G: [„Acèstă parere acestui Enea nu este de aiurea, numaĭ au cetitu nisce stiluri a unui dascălu anume Ovidius”].
  24. Che egli però (ibid.) fa corrispondere a Cetatea-Albă, non a Constanța come oggi pare assodato.
  25. Ibid.: [,...pentru nesee cărti ce au fostu scrisu în stiluri de dragoste”].
  26. Ibid.: [„...totu Romul de curvii”].
  27. Op. cit., I,p.378: [„Credem neputinței omenesci! Iar este altulu, de nèmul seu Lèhu, Jan Zamoskie, carele orbu năvălesce, că nu sunt Moldoveniì nicǐ Muntenii din Romlèni; ci trecêndu pe aice, pre aceste locurǐ, Trajan împeratul Romului, si lasându slujitorĭ de pază, au apucatu o sèmă de Dacǐ limbi romlenèscă”]
  28. Ciò risulta del resto anche dalla Prelazione al Poema scritto dal medesimo Costin in polacco Sul popolo moldavo (Opisanie Ziemie Moldawskiej): „Malgrado gli storici polacchi più rinomati, accanto agli avvenimenti militari della Moldavia e della Valachia, e, sopratutti il Cromer e il Piasecki riconoscano persin l’origine italiana degli abitanti di quelle terre; pur tuttavia non si stillano affatto il cervello per sapere quando e da chi gl’Italiani furon portati nella Dacia, nè mostrano di avere notizia alcuna della seconda immigrazione moldava”, op. cit., II, p. 77. Del resto il Costin aveva modo di raccoglier notizie sull’Italia e gli Italiani dalla viva voce di un vescovo italiano, che tutto porta a credere sia Monsignor Vito Piluzio da Vignanello, dell’Ordine dei Minori Conventuali di S. Francesco ed autore di una Dottrina Cristiana tradotta in lingua Valacha, della quale avremo occasione di riparlare. Da lui ebbe p. es. notizia di molti usi e costumi italiani che trovan riscontro in altrettanti usi e costumi rumeni: „Molte usanze esistono anche al presente in questo popolo (il popolo rumeno) che sono italiane: per esempio l’esser (come gli italiani) larghi di ospitalità nelle loro case e alla mano con tutti; il ricever che fanno con piacere chi lor vada a far visita, e così son simili nei divertimenti e nel domandarsi che fanno l’un l’altro notizie della salute e degli affari, senza offendersene. Chi è stato in Italia ed ha osservato gl’Italiani, non avrà bisogno d’altra prova per indursi a credere che Italiani e Moldavi formano un solo e stesso popolo. A casa nostra, a Iassy ebbi un giorno occasione d’intrattenermi a conversare su codesto argomento con un vescovo italiano, e, fra le altre cose di cui egli spontaneamanle mi parlò, mi disse anche qualcosa intorno agli usi dei due popoli, esprimendosi a un dipresso così (ed era uomo intelligente): „ Quando a me „disse” io non ho bisogno di andare a leggere nelle Storie chi siano i Moldavi. Da un gran numero di ottime usanze che ho ritrovate presso di loro, argomento l’origine del popolo; come p. es. dal loro trasporto per i banchetti, dal tenere a che la donna non passi prima dell’uomo sul sentiero o sulla via battuta; dal mangiar volentieri cavolo tutta la vita, con questa differenza che questi (i Rumeni) lo mangiano salato, quelli (gl’Italiani) sì d’estate che d’inverno non inacidito. Tutte queste cose trovali riscontro in Italia e basta guardare in viso i Moldavi per riconoscere il sangue.” Assai meraviglia mi fecer le parole di quel vescovo, che mi venivano così a proposito per la mia Storia.” op. cit., I, p. Daciam, populi Romani provinciam, Getarum regionem, una cum Pannoniis inundassent; colonias tamen, legionesque romanas non potuerunt interire. Inter Barbaros obrutae, Romanam tandem linguam redolere videntur; et ne omnino eam deserant, ita reluctantur, ut non tantum pro vitae, quantum pro linguae incolumitate certasse videantur. Quis enim assiduas Sarmatorum inundationes et Gothorum, item Unnorum, Vandadorum et Gepidarum eruptiones, Germanorum excursus, et Longobardorum, si bene supputarit, non vehementer admiretur, servata adhuc inter Dacos et Getas Romanae linguae vestigia?” op. cit., p. 530, Decadis III, Liber X. Qui è assai bene caratterizzata la tenacità colla quale i Rumeni d’ogni parte difendono la loro lingua dagli attacchi nemici. Pare che in ogni contadino ci sia la coscienza, che, una volta perduta la lingua, anche lui è condannato a sparire. Bisogna sentire con quale accento di desolazione i rumeni dell’Istria e di Albania constatano il lento disparire della loro lingua. In un appello scritto in italiano alla Dieta istriana, i rumeni di Jeianc, Susnevizza, Birdo, Lelai, Globnico, Villanova, Gradine e Jesenovici richiaman l’attenzione dei governanti su di „un popolo pacifico e onesto che di giorno in giorno va perdendo il più sacro contrassegno: la lingua e la nazionalità”. Cfr. Teodor T. Burada, O călătorie în satele româneşti din Istria, Iași, Tip. Națională, 1896, p. 71. E persone degne di ogni fede mi han ripetuto frasi di questo genere: „Ni pierdem limba, dominule! Ni-i dor de limba noastrà”, pronunziate con infinita tristezza da rumeni dell’Istria e di Albania! Sull’origine del nome „Valachi” il Bonfinio non è però d’accordo col Piccolomini e la fa derivare ἀπὸ τοῦ βάλλειν ovvero dal nome d’una figliuola dell’Imperatore Diocleziano che andò sposa ad uno dei Principi della Dacia. Trascrivo per intero il passo clic riguarda i Valachii, visto che è una delle più antiche testimonianze della latinità dei rumeni e vale a confermar la nostra opinione che la scoperta di questo popolo romanzo sia dovuto al Rinascimento, senza del quale probabilmente nè i Rumeni avrebbero mai saputo d’esser d’origine romana, nè, ignorandolo, sarebbero riusciti a difendere la loro personalità etnica: „Valachi enim, e Romanis oriundi, quod eorum lingua adhuc fatetur, quam inter talli varias Barbarorum gentes vita adhuc extirpari non potuerit, ulteriorem Istri piagam, quam Duci ac Getae. quondam incoluere, liabitarunt; nam citeriorem Bulgari, qui e Sarmatia prodiere, deinde occuparunt. E legionibus enim et coloniis, a Trajano, ae caeteris Romanorum Imperatoribus, in Daciam deductis, Valachi promanarunt. Quos Pius (Piccolomini) a Flacco, pronuntiatione Germanica, Vlachos dici voluit: nos contra άπό τοό βάλλειυì dictos esse censuimus, quum sagittandi arte praepollcant. Nonnulli Valachiae a Diocletiani filia nomen inditum censuere, quae illorum Principi nupsisse fertur”, op. cit., p. 284. Decadis II, Liber XIII. Il panegirista al quale alludo al principio di questa nota è il teologo e storico Pietro Rausano, che, nella sua Epitome Rerum Hungaricarum (Budae, 1746, p. 12), levando al cielo la nobiltà e la virtù di Mattia, esce in queste parole: „Romanus es genere, Romanus es origine, Romanum te ac latinum hominem nos Itali asserimus, affirmamus, praedicamus”. Chi avrebbe detto all’umanista italiano che la sua lingua adulatrice diceva il vero?
  29. Da non confondersi coll’antico cronista omonimo Grigore Urechie.
  30. Cfr. V. A. Urechie, Schite de istoria literaturii române, Bucuresti, 1885.
  31. E del Bonfinio che nelle sue Rerum Hungaricarum Decades, Lipsiae, Kraus, MDCCCXXI, insiste più volle a proposito di Mattia Corvino, (rumeno per chi con lo sapesse,— anzi „romanus ac latinus homo”, secondo un panegirista italiano, — e non ungherese come ci hanno l’atto imparare a scuola) sull’origine latina dei Valacchi: „Quamquam varine Barharorum erupliones,
  32. [„De la Râm ne tragem si cu a lor cuvinte ni-i amestecat graiul.”] Gr. Urechie, citato dal Iorga nella conferenza di cui avremo or ora occasion di parlare.
  33. N. Iorga, Istoria Romanilor in chipuri si icoane, Bucuresti, 1905. Vol. II, pp. 49—54.
  34. [„Da Roma discendiamo e di parole romane è misto il nostro dire.”]
  35. Fra i rumeni, naturalmente, poi che già, come abbiam visto, gli storici polacchi avevano richiamato l’attenzione sul famoso passo della Cosmographia che crediamo utile riprodur qui testualmente, anche perchè nessuno degli storici della letteratura rumena che vi alludono, lo han mai riprodotto: „Valachia lata regio est a Transsylvanis incipiens usque in Euxinum protensa pelagus: plana ferme tota: et aquarum indigua. Cuius meridiem Ister fluvius excipit. Septentrionem Roxani occupant: quos nostra aetas Ruthenos appellat: et versus fluvium Thirannomades Scytarum genus: quos Tartaros hodie vocitamus. Hanc terram incoluerunt quondam Gethae: qui et Darium Histaspis filium turpi fuga repulerunt: et Lysimachum regem vivum in captivitatem pertraxerunt et Thraciam pluribus cladibus affecerunt. Postremo Romanis armis subacti ac deleti sunt. Et colonia Romanorum quae duces coerceret eo deducta duce quodam Flacco: a quo „Flaccia” nuncupata. Exin longo temporis tractu corrupto: ut sit vocabulo „Valachia” dicta. Et pro „Flaciis” „Vadahi” appellati. Sermo adhuc genti romanus est. quumvis magna ex parte mutatus: et homini italico vix inlelligibilis.” Cfr. Cosmographia Pii Papae in Asiae et Europae eleganti descriptione etc. Impressa... per Henricum Stephanum... Parrhisiis..., VI Idus octobris anno Domini M.D.IX, p. 91.
  36. Termine militare polacco equivalente a „generale di cavalleria”. La frase del Costin potrebbe quindi tradursi in latino: Praefectus equitum Romanorum.
  37. Non è esatto. L’inventore, in ogni caso, sarebbe stato Ovidio, su cui il Piccolomini si fonda.
  38. Stolnic equivale press’a poco ad Intendente ed era una delle cariche di corte degli antichi rumeni.
  39. [„Scavalcata.”]
  40. [„Cronaca dei Rumeni-Moldo-Valacchi.”]
  41. Soprattutto di Paolo Ladislao Baranyi (1657—1719) „parohul latincesc din Belgrad”, dove, nei mesi di febbraio e di marzo del 1697, si tenne il concilio, nel quale fu decretato l’unione. Cfr. Samuil Micu, Istoria biscricească a Românilor Transilvani în Acte și fragmente pentru istoria bisericei române de T. Cipariu, Blasiu, 1855, p. 70.
  42. Dialogul pentru începutul limbei române, col quale s’apre il: Lexiconul românesc-latinesc, unguresc-nemțesc... Buda, 1725, ma fu confiscato nella sua prima redazione che fu in latino, e si può leggere in rumeno nella Ortographia romana sive latino-valachica, una cum clavi qua penetralia originationis vocum reserantur, pubblicata a Buda il 1819.
  43. Cfr.la nota precedente.
  44. N. Iorga, Istoria Românilor în chipuri și icoane, București, 1905, II, 49—84.
  45. [„Pastore”.]
  46. Non saprei più dove, nè ho qui il modo di farne ricerca. Ricordo che a me giovanetto (ero allora in seconda liceale) il bravo e buono e curo prof. Francesco Colagrosso, alla cui triste fine non posso ripensare senza che mi si inumidiscano gli occhi di pianto, dette una volta per tema di composizione la seguente sentenza di quel Grande: „ Adorate l’entusiasmo, adoiate i sogni dell’anima vergine, perchè i sogni della prima giovinezza sono un profumo di paiadiso che l’anima serba, uscendo dalle mani del suo Fattore.” Questa sentenza ricomparve come motto sulla testata d’un giornaletto liceale: „Il Fantasio”, dove molti di noi fecero le prime armi nella novella e nella critica e restò scolpita nel cuore di tutti quei giovanetti ch’ebbero a trattarla come tema di composizione e fanno ora tutti il loro dovere nel giornalismo e nell’arte, nella magistratura e nell’esercito, nell’insegnamento e nell’avvocatura.